Mi è venuta improvvisa la voglia di citare la Divina Commedia, laddove, nel Purgatorio, Virgilio si rivolge a Catone l’Uticense presentandogli Dante e gli dice “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” con riferimento al suicidio del politico romano, un atto estremo per non incappare nell’umiliazione di chiedere la grazia a Giulio Cesare.
Viene logico chiedersi che relazione ci sia fra un personaggio vissuto nel primo secolo avanti Cristo e il grande musicista austriaco che consumò la sua breve esistenza nella seconda metà del diciottesimo secolo.
Una risposta esauriente si può trovare nella bellissima biografia scritta da Edgarda Ferri, che evidenzia l’irrefrenabile desiderio del compositore salisburghese di essere finalmente libero di condurre la propria esistenza, senza la presenza oppressiva del padre che, con continui ricatti, gli impose di vivere secondo il suo punto di vista, incurante delle legittime aspirazioni del figlio. A differenza di Catone Mozart non si suicidò, ma di certo, unitamente alla circostanza che si era appannato con la maggiore età il mito del bambino prodigio, aveva finito per condurre un’esistenza grigia e senza soddisfazioni, comportandosi come un fallito anche se non lo era e non accettando quella normalità che non gli era mai stata propria. Per dirla in breve non si suicidò, ma nulla fece per vivere.
Il libro è bello, sotto ogni aspetto, la narrazione di Edgarda Ferri è puntuale e precisa, nulla le sfugge di una vita così intensa quale è stata quella di Mozart durante l’infanzia; descrive bene i personaggi, soprattutto Leopold Mozart, il padre padrone del piccolo genio, un uomo che vede nel figlio quella possibilità di successo e di fama da lui sempre agognati e mai raggiunti. La brama di arrivare incombe continuamente sul piccolo Mozart, escludendo perfino la sorella Nannerl, che pure avrebbe avuto grandi possibilità di affermarsi con il suo talento musicale. Le descrizioni dei viaggi, gli incontri con i reali dell’epoca, la felicità infantile di Amadeus che con il trascorrere degli anni, raggiunta la maggiore età, si trasforma in insoddisfazione, stante la pressione paterna, l’incapacità del giovane di sottrarsi a questo vincolo opprimente, il declino fra ristrettezze tali che, da morto, finirà in una fossa comune, sono descritti mirabilmente e con una vena di compassione per un uomo a cui non fu permesso di vivere normalmente.
Secondo me Mozart è stato il più grande compositore di tutti i tempi, un compositore universale, stante la sua grandezza nella musica classica, in quella sacra, in quella sinfonica e in quella operistica, ma è stato anche e soprattutto un essere umano che ha cercato sempre, senza mai ottenerla, un po’ di libertà.
Da leggere, più che un consiglio è una raccomandazione.
L’affare Dreyfuss è stato indubbiamente il caso più noto di condanna di un innocente in forza di pregiudizi razziali prima, e di delirio di onnipotenza dopo, quando ci si accorse che il condannato non era colpevole.
Alfred Dreyfuss, ufficiale di artiglieria alsaziano ed ebreo, fu imputato di tradimento unicamente sulla base di un documento rinvenuto nell’immondizia dell’ambasciata tedesca a Parigi, documento scritto a mano con una calligrafia simile alla sua. E poiché la prova non era sufficiente per una condanna, si provvide a costruirne altre, peraltro in modo dilettantesco.
Condannato alla deportazione perpetua nella tremenda isola del Diavolo nei pressi della Guyana francese, la sua sorte sarebbe stata segnata se uno dei militari che avevano preso parte al suo arresto, l’allora maggiore Georges Picquart, divenuto capo del Controspionaggio non avesse per caso notato alcune incongruenze nelle prove d’accusa. Dato che la storia è lunga, non sto a scriverla tutta, anche perché è nota, sto solo a evidenziare come un fatto del genere sia potuto avvenire anche per un rigurgito nazionale di antisemitismo; basti solo sapere che occorse parecchio tempo per porre rimedio all’ingiustizia, che lo stesso Piquart fu incriminato per aver cercato di portare alla luce la verità, che ci furono diversi processi prima che Dreyfuss fosse riabilitato e reintegrato nell’esercito con il grado di maggiore. Andò ancora meglio al tenente colonnello Picquart, prima espulso dall’esercito, poi riammesso con il grado di generale di brigata e che riuscì anche a diventare Ministro della Guerra.
Da questa vicenda ampiamente conosciuta Robert Harris ha tratto un romanzo storico, il più possibile aderente allo svolgimento dei fatti, che vengono narrati proprio da Georges Picquart.
Se devo essere sincero avevo il non infondato timore, prima di leggere, di potermi trovare di fronte a una specie di polpettone, perché la storia è complessa, i personaggi sono numerosi e pressoché tutti veri e spesso di grande notorietà, come Georges Clemenceau ed Emile Zola, quello della famosa lettera pubblicata su L’aurore il 13 gennaio 1898 e rivolta al Presidente della Francia che comincia con “J’accuse”.
Invece è risultato un romanzo che, oltre a essere di notevole interesse, è di facile e appassionante lettura.
Harris ricrea nel migliore dei modi l’ottusità di un certo mondo militare disposto a tutto pur di non dover ammettere l’errore, l’ignoranza diffusa di un popolo che prova ancora la cocente delusione per la sconfitta subita dai tedeschi nel 1870 e che trova, nella sua incapacità di darsi pace, i capri espiatori più facili, gli ebrei. Così il tradimento di cui è incolpato Dreyfuss ha il suo peso nell’ossessione del nazionalismo, ma lo è ancor di più perché ebreo, e ovviamente è visto male e allo stesso modo chi, cercando la verità, difende un uomo, che ha il difetto di essere ebreo.
Il libro è semplicemente stupendo, si inizia a leggere e non ci si fermerebbe mai, nonostante le sue 448 pagine. A titolo di notizia, nel 2019 è uscito nelle sale cinematografiche un film tratto dal romanzo, diretto da Roman Polanski; la pellicola ha avuto grande successo e fra i numerosi riconoscimenti si è anche aggiudicato Il Gran premio della giuria alla 76a Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia.
Non credo sia necessario aggiungere altro.
Le ultime lune è una pièce teatrale in due atti scritta da Furio Bordon nel 1992 quando era direttore artistico del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e che debuttò nel 1994 il 10 novembre al Teatro Carlo Goldoni di Venezia per la regia di Giulio Bosetti e l´interpretazione di Marcello Mastroianni (il padre), di Erika Blanc (la madre) e di Giorgio Locuratolo (il figlio). Fu un immediato successo, tanto che il dramma è stato tradotto in venti lingue e rappresentato in trenta paesi.
Perché questo straordinario esito favorevole, che cosa ha indotto migliaia di spettatori ad accorrere per vedere questa pièce?
Si tratta dell´argomento trattato, di quella vecchiaia che è propria di tutti gli esseri umani, e che Furio Bordon ha saputo fare oggetto di una particolare riflessione, da cui scaturiscono i drammi, piccoli e grandi, e anche le dolcezze di questa ultima età. Nella vicenda dell´anziano che è per l´ultima volta nella sua camera, solo e in attesa del ritorno dal lavoro del figlio che lo condurrà poi a una casa di riposo, si specchia ineluttabile un destino di tanti a una certa età e proprio a una certa età, non potendo vivere in funzione del futuro, si vive del passato; è così che l´uomo inganna il tempo che gli manca per la partenza conversando con la moglie morta da molto tempo, un colloquio struggente che ripercorre tutta una vita e che gli fa dire " La felicità è tutta nel passato." Poi, arriva il figlio e ii discorso diventa fra vivi, con qualche bisticcio anche, e ancora con gli interventi della moglie, che è quella parte dell´anima del vecchio che lo rende ritroso a lasciare la casa, consapevole che la prossima dimora sarà quella in cui finirà con il morire. E´ molto bello anche il tentativo, blando, del figlio di trattenerlo, blando perché comprende le ragioni del padre, ma è anche vero che non si sente di avere fra quelle quattro mura un morituro, a parte l´egoismo di avere a disposizione una camera in più per i figli. Finisce il primo atto e si arriva al secondo, con l´anziano che ormai ospitato a Villa Delizia si è ritagliato un angolo di indipendenza in una soffitta dove coltiva una pianta di basilico, quasi a voler affermare il desiderio di veder crescere una vita fra tante che lentamente si spengono. E lì, nell´attesa di oltrepassare l´ultima porta, accomunati tutti dallo stesso destino come i soldati in una trincea, lui, in un ultimo sussulto, decide di non lasciarsi andare, di non anticipare la sua dipartita, riscopre la sacralità della vita che merita di essere vissuta fino all´ultimo, con l´unico desiderio di scegliere il tempo per la sua morte. Gli piacerebbe tanto a Natale, con il grande albero illuminato, in mezzo alla piazza, mentre la neve cade lenta.
Sì, la felicità è nel passato, ha proprio ragione Furio Bordon.
Da leggere, è un capolavoro.
Quando si parla di fascismo la prima cosa che viene in mente sono le squadracce di personaggi truci, armati di manganello, pugnale e qualche volta di pistola e bombe a mano, intente a bastonare gli oppositori politici e a far ingurgitare loro abbondanti dosi di olio di ricino. Però, è talmente prevalente la loro turpe fama che spesso e volentieri si finisce con l´ignorare la loro storia, i motivi per cui sono nate, gli scopi e il loro utilizzo per l´affermazione politica di Mussolini e del fascismo.
Per chi vuol sapere di più su questi "bravi" mussoliniani basta leggere Squadristi, un saggio storico del sempre eccellente Mimmo Franzinelli. Dato che l´opera, come d´abitudine accompagnata dall´indicazione delle fonti, è lunga ben 464 pagine non intendo assolutamente scriverne un riassunto che, oltre tutto, non potrebbe essere breve, ma mi limiterò a evidenziarne la struttura e le caratteristiche.
Al riguardo il periodo preso in considerazione è quello in cui appunto si manifestarono queste squadre d´azione, costituite da nuclei di attivisti chiaramente nazionalisti volti a osteggiare gli avversari politici, ricorrendo alla forza, non di rado arrivando anche ad uccidere. Sorte nel 1919 furono il braccio armato del fascismo, perseguitando dapprima i socialisti e, dopo la scissione di Livorno, anche i comunisti; ne furono vittime peraltro anche democratici di tendenze diverse e addirittura dei sacerdoti.
Franzinelli non è uno storico superficiale e la sua analisi del fenomeno è particolarmente profonda e ben strutturata perché, per comprendere le origini, parte dalle ispirazioni che animarono i futuristi e dalle insoddisfazioni di certi fegatacci, come molti ex arditi. Inoltre esamina il fenomeno non solo relativo alle città, ma anche alle campagne in cui non pochi proprietari terrieri foraggiarono il fascismo, vedendo nel movimento e nelle squadre d´azione l´unica risorsa per combattere con successo una sinistra divisa e in parte ispirata al marxismo sovietico. Lo stato liberale, dapprima equidistante, vide tuttavia nell´estrema destra la garanzia per la sua esistenza e fece una scelta precisa, la stessa che consentirà a Mussolini di arrivare al potere con una marcia puramente dimostrativa. Un ampio capitolo poi è dedicato alle stragi compiute dalle squadre d´azione, quali il massacro di Roccastrada avvenuto il 24 luglio 1921, quando a seguito dell´uccisione dello squadrista grossetano Ivo Saletti, al termine di una spedizione punitiva proprio a Roccastrada, vennero per ritorsione uccisi una decina di contadini e furono date alle fiamme una ventina di case del paese. Non potevano poi mancare pagine della marcia su Roma, che tuttavia non pose fine alle intimidazioni e alle violenze fasciste, e al riguardo basti pensare all´omicidio di Giacomo Matteotti. Di particolare interesse, poi, in conclusione sono la cronologia delle violenze politiche (1919-1922) e il dizionario biografico del fascismo, con quest´ultimo che riporta i nominativi, con tanto di cronistoria soprattutto delle loro gesta, di squadristi particolarmente attivi, il tutto completato da fotografie dell´epoca in tema.
La lettura è estremamente interessante, l´analisi di Franzinelli, equilibrata, è molto approfondita e in grado di rendere edotti di questo tragico fenomeno. Di conseguenza, Squadristi è un altro lavoro dello storico bresciano meritevole di attenzione.
Ci si può chiedere che senso abbia leggere oggi, o meglio rileggere, una favola a cui mi sono avvicinato, se la memoria non m’inganna, che avrò avuto all’incirca undici-dodici anni anni, e quindi più di una sessantina di anni fa. I motivi possono essere i più vari, quali ritrovare un sogno di giovinezza, ma credo soprattutto che si sia trattato di verificare se quest’opera - che non avevo disprezzato, ma che neppure mi aveva entusiasmato - alla luce di un’abbondante maturità potesse confermare il lontano giudizio, oppure se dovesse esserci una variazione, in positivo o in negativo, dello stesso.
In questa rilettura pesa non poco l’esperienza maturata, il disincanto che è proprio dei vecchi, la difficoltà di vedere con gli occhi di un bambino. Eppure, non posso nascondere che la favoletta ha un suo fascino, rammentando che nella vita sono importanti valori come l’amicizia, l’amore, l’altruismo, senza dimenticare che in noi c’è un bene inestimabile, quell’innocenza propria dei bambini che dobbiamo cercare di conservare nonostante il trascorrere del tempo, le gioie e soprattutto i dolori che accompagneranno la nostra esistenza. In questo senso Il piccolo principe, più che una favola, è un sogno a occhi aperti fatto da un uomo maturo negli anni, ma fanciullo nell’animo, un uomo che ha trovato nel volo quella libertà che ha sempre cercato e che gli ha consentito quella saggezza che è propria di quell’omino, il piccolo principe, giunto sulla terra, guarda caso, dal cielo, su un asteroide. Chi viene da lontano, chi non è inserito in un sistema, può vedere meglio le storture dello stesso ed è quello che fa questo essere spaziale, con una lezione di civiltà di rara efficacia. E’ il mondo degli adulti oggetto delle critiche, adulti che hanno persa la purezza dei bambini, ed ecco allora l’importanza di conservare dentro di sé l’innocenza primitiva.
Certo è che viene spontaneo il raffronto con Il fanciullino di Giovanni Pascoli, perché entrambi gli autori, in epoche certamente diverse, hanno saputo cogliere il segreto per un mondo migliore, un mondo in cui ci si possa ancora stupire delle piccole cose, dove l’affetto non deve avere interessi e in cui sia possibile ritrovare noi stessi quali eravamo prima dell’età adulta, spesso immemori dei sogni e dei desideri di quando eravamo bambini.
In pratica con Il piccolo principe Antoine de Saint-Exupery ci insegna che dobbiamo vedere con il cuore, perché quello che conta, l’essenziale, è invisibile ai nostri occhi.
E’ una grande messaggio, scritto da un uomo che con il tempo è diventato un mito e come tutti i miti è pure immortale, perché nulla si sa della sua fine, del perché non sia ritornato durante la guerra da una missione, ma soprattutto perché immortale è il messaggio che ci ha lasciato con Il Piccolo Principe.
Se avevo delle riserve quando espressi il mio giudizio una sessantina di anni fa, queste sono sciolte e il risultato è che mi ha talmente soddisfatto da raccomandarne la lettura ai bambini, ma anche ai grandi, perché, cercando dentro di noi, è sempre possibile trovare almeno una traccia di quel bimbo che eravamo.
Ultimato di leggere questo libro mi sono accorto che la tensione che mi aveva trasmesso era ancora palpitante, una sensazione che raramente mi era accaduta con altri romanzi del genere. Se per circa tre quarti si è presi dalle difficoltà che incontrano i decifratori inglesi per leggere in chiaro i messaggi tedeschi, un lavoro più da scrivania che da agenti segreti quali noi conosciamo, la parte finale ha un’accelerazione notevolissima e l’azione prende il sopravvento. La trama è veramente ben congegnata e come al solito parte da alcune verità, come appunto la macchina Enigma, un dispositivo elettromeccanico per cifrare e decifrare i messaggi, utilizzato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Nonostante fosse stata più volte modificata e potenziata, un folto gruppo di esperti riuscì a violarla e furono proprio gli inglesi, guidati dal grande matematico Alan Turing, a ideare il sistema Ultra di decodificazione, grazie anche al fatto di aver potuto mettere le mani nella primavera del 1941 su un apparato Enigma intatto e sui documenti di cifratura, reperiti nell’interno di un sommergibile tedesco catturato dopo un attacco dello stesso a un convoglio alleato.
La possibilità di conoscere in chiaro i messaggi cifrati del nemico fu di fondamentale importanza per gli esiti della guerra, al punto che gli inglesi misero a punto un complesso sistema di intercettazione e decifrazione; il romanzo parla soprattutto di quest’ultima attività, con un genio della matematica Tom Jericho che viene richiamato urgentemente in servizio prima del tempo da un periodo di riposo della mente sovraffaticata dalla complessità dei calcoli. E’ con questo rientro a Bletchley Park, nota anche come stazione X, luogo a 75 Km. da Londra e principale sito di crittoanalisi del Regno Unito, che prende avvio una vicenda intricata, ma ad alta e crescente tensione.
L’ambientazione è resa in modo estremamente realistico e anche la descrizione dei protagonisti è di elevato livello, come la fine analisi psicologica.
Il bello però del romanzo è che quando si crede di aver capito tutto ci si accorge che ci sono ancora dei punti oscuri che necessitano di essere chiariti e l’autore lo fa immediatamente, seguendo un percorso di ineccepibile logicità. Da Enigma è stato tratto, come nel caso di altre opere di Robert Harris, un film, uscito nelle sale nel 2001, diretto da Michael Apted e interpretato da Dougray Scott e Kate Winslet, che riscosse, come il libro, un grande successo.
Da leggere, è un capolavoro nel genere delle spy story.
Sulla tragedia della guerra e con intenti pacifisti sono stati scritti due libri, giustamente diventati famosi, Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich Maria Remarque, e Un anno sull´altipiano, di Emilio Lussu; inoltre ci sono state altre pubblicazioni, valide, ma di minor fortuna, e fra queste ho avuto occasione di leggere circa quattro anni fa quel gioiellino di Ballata senza nome, di Massimo Bubola, noto autore di musica leggera prestato occasionalmente alla letteratura.
E´ invece di questi giorni la mia lettura di Il soldato perduto, di Gilles Marchand, un francese che ha un trascorso di batterista in un gruppo rock. Ebbene, sono rimasto notevolmente impressionato da questo romanzo di amore e di guerra, in cui la retorica è bandita sin dall´inizio, anzi potrei dire che trionfa l´anti retorica con descrizioni che sanno essere asciutte e drammatiche quando serve e che assumono una nota poetica quando è indispensabile.
In breve è la storia della ricerca di un soldato di cui non si sa più nulla, su incarico della madre aristocratica e danarosa, ricerca condotta da un reduce della Grande Guerra nel corso della quale ha avuto la mutilazione della mano sinistra. Nonostante questa disgrazia, anche per non pensarci, non aveva rinunciato a combattere, ma, stante l´invalidità, grazie a una protesi posticcia, era stato messo a condurre degli autocarri lungo la Via Sacra che portava a Verdun. Finita la guerra è tornato a casa e ha potuto riabbracciare l´amata che tuttavia in poco tempo è stata stroncata dalla febbre spagnola. Solo, convinto anche di non aver fatto del tutto il suo dovere, arrotonda la pensione con incarichi di familiari che vogliono sapere dove si trova il loro caro, dato per disperso. E´ appunto questo il caso di Emile Joplain, un ragazzo sensibile e poeta, innamorato di una cameriera che serviva in famiglia, amore contraccambiato, ma irriducibilmente osteggiato dalla madre di lui. La ragazza, cacciata dal servizio, ritorna casa, in Alsazia, ma scoppia la Grande Guerra. Il mutilato si appassiona a questa indagine e cerca di ricostruire i passi dei due amanti, che, benché divisi, si cercano. E´ un´indaginea che apre squarci sugli orrori della guerra, sull´insensatezza degli uomini, sulle miserie di tanti poveri cristi e viene così a sapere di una donna che di notte vaga nella terra di nessuno, fra le opposte trincee, e si ferma di fronte ai feriti chiedendo loro se sanno dove si trovi il suo amato. Sembra una favola, tanto che non sapendo il nome della donna viene chiamata la Figlia della Luna. Ma quella che sembra una leggenda non lo è, è un grande, infinito atto d´amore.
Non vado oltre perché l´indagine ha la tensione del giallo e poi ovviamente si arriva alla soluzione, che non è proprio quella che il lettore spera.
E´ inutile che dica che questo romanzo ingenera un grande pathos, è un´emozione continua e crescente, è un´attesa fatta di speranze e di delusioni, è il piacere, in una tragedia, di leggere dei versi sublimi, così che si arriva alla fine più che mai convinti dell´inutilità delle guerre, riassunta peraltro in una frase del libro che riporto e che dice tutto, riguardo a dei prigionieri tedeschi:
" Se avessimo saputo che un crucco non era altro che un francese che parla tedesco avremmo fatto fatica a continuare a sparargli addosso.".
Leggetelo, non ve ne pentirete, e credo proprio che non pochi in qualche loro sogno vedranno la Figlia della Luna aggirarsi di notte su un campo di battaglia.
Il missile V2 è stato il precursore di tutti i missili balistici e fu ampiamente utilizzato dalla Germania nazista a partire dal 1943 e fino alla fine della seconda guerra mondiale senza che potesse avere tuttavia un´incidenza sul decorso della stessa. Come arma di rappresaglia e con obiettivi Londra e Anversa fu indubbiamente efficace, portando lutti e rovine, ma non fu assolutamente in grado di invertire le sorti del conflitto.
Il libro di Robert Harris parla delle manovre adottate nel 1944 dagli inglesi per contrastare la pioggia di V2 che cadevano inesorabili sulla loro capitale e sul grande porto belga, cercando di distruggere i siti di lancio ubicati sulla costa olandese. Il romanzo ha un incipit felicissimo, con una coppia a letto sulla cui casa a Londra cade uno di questi missili. Si salvano entrambi, lui con diverse fratture, lei con un graffio; entrambi prestano servizio nell´Aeronautica, lui come commodoro, lei quale ufficiale addetta alle interpretazioni delle fotografie aeree. Inizia così la narrazione coinvolgendo, un capitolo per ognuno, da un lato Kay Caton Walsh, l´ufficiale ausiliario di cui sopra, e dall´altro l´ingegnere tedesco Rudolf Graf, il padre, insieme a Werner von Braun, di quest´arma micidiale.
Così mentre si sviluppa il metodo per cercare di scoprire i siti di lancio grazie al radar e al calcolo della traiettoria a ritroso dal punto di caduta, dall´altro leggiamo delle complesse manovre di lancio e del veloce sistema di camuffamento.
E´ un romanzo dove la trama è predominante, perché se è vero che i due protagonisti, Kay Caton Walsh e Rudolf Graf destano simpatia (lei una bella donna in cerca di un uomo con cui costruire la sua vita, lui un talento della fisica profondamente disilluso), tuttavia l´autore non approfondisce più di tanto la loro psicologia, tutto preso come è a far scorrere senza intoppi e nel migliore dei modi la vicenda. Il bello è che i due personaggi, che lavorano ovviamente distanti l´uno dall´altro, a guerra finita si incontreranno, lasciando intuire che non si tratterà di un contatto occasionale. E anche in questo il romanzo non brilla per originalità, per quanto la soluzione sia una di quelle che in genere è particolarmente apprezzata dai lettori.
V2 comunque resta un libro di più che gradevole lettura, uno di quelli che non impegnano più di tanto, ma che consentono di trascorrere piacevolmente qualche ora.
E´ ancora in uso la vulgata degli "italiani brava gente", riferita al comportamento dei nostri soldati nel corso della seconda guerra mondiale, ma si tratta di una formula auto assolutoria, benché ci siano stati effettivamente italiani dal comportamento umano. Purtroppo non sono stati pochi quelli che avrebbero meritato di finire davanti a un tribunale per essere giudicati per i gravi fatti compiuti, fatti raccapriccianti che nelle nostre colonie e nei Balcani hanno assunto le caratteristiche del genocidio. Quindi, come i famigerati tedeschi, ci sono stati anche i criminali italiani, che pur tuttavia non hanno pagato per le loro gravi colpe.
A parte il famoso processo di Norimberga, nel dopo guerra in Germania vi furono altri numerosi procedimenti giudiziari, conclusi con diverse condanne, ivi comprese le pene capitali, in buona parte eseguite (i tribunali della Repubblica Federale giudicarono 16.740 cittadini tedeschi, con 16 condanne a morte e 116 all´ergastolo). Lo stesso dicasi per il Giappone, dove sentenze con l´irrogazione della pena capitale sono state frequenti (i processi furono all´incirca diecimila con centinaia di condanne a morte).
Da noi invece, a parte i pochi processi che potremmo definire una farsa, poco è mancato che agli incriminati fosse concessa una decorazione.
Le motivazioni risiedono soprattutto nel fatto che chi ebbe a giudicare era ancora legato all´ideologia fascista, o parte attiva della casta militare, insomma per farla breve tutti i nostri criminali di guerra scamparono alla giusta condanna, con il risultato che quando un popolo non fa i conti con il suo passato è irrimediabilmente condannato a ripetersi negli errori.
Per fortuna che gli storici hanno preso atto della menzogna insita in "Italiani brava gente" e hanno portato alla luce i tanti casi di criminalità bellica, come per esempio Filippo Focardi con "Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale", edito da "Laterza", Gianni Oliva con "Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani 1940 - 43", pubblicato da Mondadori e Angelo Del Boca con "Italiani brava gente? Un culto duro a morire", edito da Neri Pozza.
Eric Gobetti con questo "I carnefici del Duce" vuole anche lui portare alla luce fatti e misfatti dei nostri militari, sia nelle colonie (Etiopia e Libia), sia nei Balcani, zona geografica dove la nostra presenza avrebbe dovuto essere pacificatrice e dove invece provocammo, ad arte, tensioni e scontri fra i vari gruppi etnici, armando gli uni contro gli altri, sloveni, croati, serbi, e montenegrini, senza ritrarre vantaggi da questo nostro comportamento.
Il saggio di Gobetti va oltre la segnalazione di singoli eccidi, perché ricerca il livello di responsabilità, soprattutto, oltre alle colpe dei comandanti, quelle dei soldati, quasi sempre militari non di carriera. Che cosa spinse questi esecutori materiali a mettere in pratica l´ordine criminale, che motivazioni avevano? Le risposte sono diverse: il contesto di violenza in cui operarono e commisero gli eccidi, un´idea del tutto ignobile, per quanto inculcata, di una patria che cercava uno spazio vitale con l´aggressione sistematica, il razzismo verso i coloni arabi e gli slavi, visti come esseri inferiori, e anche altri, tutti peraltro riconducibili al martellante indottrinamento di un ventennio di fascismo. Del resto, non ci si può esimere dall´evidenziare che qualora un regime stimoli la parte peggiore di noi questa finisce con il mostrarsi, con una violenza quasi sempre ingiustificabile, se non nel desiderio dell´individuo di diventare carnefice per sentirsi quello che non è, e cioè forte e coraggioso.
Non si tratta purtroppo di casi isolati, ma di centinaia, se non addirittura di migliaia di questi carnefici che spesso provavano ebrezza nell´uccidere e che così si credevano eroi (basti pensare ai quasi ventimila abitanti di Addis Abeba, trucidati dopo l´attentato a Graziani, in quello che a tutti gli effetti fu un progrom, con una caccia indiscriminata agli etiopici, non solo dei soldati, ma anche dei privati cittadini italiani). Poi ci fu invece chi riuscì a conservare la propria umanità, ma ciò non toglie che i nostri comportamenti furono generalmente ben poco apprezzabili, come per le sistematiche razzie di cibarie e altro, che immiserì gli occupati, quando non accadde di peggio, come nel caso dei circa trecentomila greci morti di fame.
Di certo non possiamo assolvere tutto con un "Italiani brava gente", se non vogliamo un giorno funesto ricadere nelle stesse colpe; gli anni sono passati, chi doveva essere giudicato è ormai scomparso, ma ciò non toglie che è giusto parlare di certi nostri comportamenti, affinché soprattutto i giovani sappiano che durante la guerra e le nostre occupazioni coloniali fummo tutt´altro che bravi.
La vita di Luisito Bianchi è stata sempre quella di un essere coerente con la propria fede, in cui il concetto evangelico della gratuità è irrinunciabile. Ma Luisito, come sacerdote e come uomo, aveva necessità di lavorare per vivere, pur accontentandosi di molto poco e così lui che aveva rinunciato allo stipendio statale di insegnante di religione in una scuola si mise a lavorare; fece il benzinaio, fece l´inserviente all´Ospedale Galeazzi, occupazione che dovette lasciare per assistere la madre ammalata, e trovò anche un lavoro come operaio. In quest´ultima veste il 5 febbraio 1968 varcò i cancelli della Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, come operaio turnista incaricato della lavorazione dell´ossido di titanio. Non a caso scelse la fabbrica, lo fece per comprendere sul campo i problemi del lavoro e per poter evangelizzare gli operai. Da questa esperienza durata circa un triennio è uscito questo libro, del tutto particolare perché a tratti può sembrare un romanzo, e altre volte invece sembrerebbe un diario o addirittura una raccolta di notizie di cronaca. Quel che è certo è che di quel periodo, delle impressioni avute, degli accadimenti che ci sono stati Luisito ha scritto, alcune volte anche ripetendosi, magari in forma diversa, ma quelle sensazioni, quell´insegnamento che ne ha ritratto costituisce un unicum nei libri sul mondo del lavoro.
In particolare vede con chiarezza la posizione subordinata dell´operaio, per così dire una figura che per la sua debolezza intrinseca rispetto al capitale è lo schiavo dei tempi moderni. Le sue osservazioni rivelano acutezza soprattutto quando rileva il ruolo dei sindacati, sempre più propensi ad accordi che non incidono sul ruolo subalterno dei propri rappresentati.
La grandezza del sacerdote e dell´uomo è nel portare avanti il discorso di una Chiesa che sia veramente casa di tutti gli uomini, soprattutto di quelli più deboli, ribadendo il concetto espresso nel Vangelo della gratuità, e quindi di una Istituzione priva di tesori e di potere, a differenza di quella che è sempre stata.
Sarebbe così una casa comune senza prevaricazioni dove si dà gratuitamente ciò che Dio gratuitamente ha dato. E´ un concetto bellissimo, ma di dubbia realizzazione, conoscendo bene, oltre alle caratteristiche degli ecclesiastici di palazzo, quelle di tutti gli uomini, ivi compresi gli operai.
Luisito a questa regola della gratuità si è attenuto tutta la vita, è stato certamente uno dei pochi e forse proprio per questo sarebbe meritevole di un riconoscimento tardivo, una beatificazione che però, credo, non gli sarebbe gradita, perché direbbe che ha fatto solo il suo dovere di autentico cristiano.
Da leggere, come tutte le opere di Luisito Bianchi.
Strana famiglia quella delle sorelle Lacroix: Matilde, sposata con un pittore vanesio che sta pressoché tutto il giorno rintanato nel suo atelier, con due figli, Jacques insofferente della vita monotona che caratterizza la casa, e Genevieve, una mistica che si è messa in testa di morire al compimento del diciottesimo anno; Leopoldine, coniugata con un tubercolotico che non c’è mai, perché sta sempre in Svizzera a curarsi, e la figlia Sophie, poco presente, quasi una figura di contorno. Ciò che caratterizza però queste persone è l’odio insanabile fra le due sorelle, che ha un origine ben precisa e che verrà svelata nel corso della narrazione (e non sarò di certo io a parlarne per non togliere ai lettori il piacere della scoperta). In realtà quella è una famiglia in cui l’odio è il motore per poter continuare a vivere, per consentire un permanente stato di tensione che è quasi una droga per le due sorelle. La vicenda è semplice nel complesso e c’è anche una tendenza a colorarla di giallo, senza che necessariamente vi sia un morto ammazzato.
Simenon, come sua caratteristica, fornisce un quadro di una famiglia borghese, in cui accanto all’odio è presente uno squallore che turba chi legge, anche perché la caratterizzazione dei personaggi e la fine analisi psicologica sono ai massimi livelli.
Le sorelle Lacroix sono delle figure, in negativo, difficilmente dimenticabili, un colpo da maestro del romanziere belga, verso le quali tuttavia mostra un atteggiamento di pietà, perché sono due esseri che per vivere hanno bisogno di odiarsi.
Da leggere, senza dubbio.
Luisito Bianchi, per parlare della gratuità, ha adottato un metodo del tutto particolare, che consente di non stancare il lettore e di venire incontro con le risposte alle sue possibili domande. Ha immaginato infatti una conversazione fra un credente e uno scettico, e non un ateo perché questo, chiuso nella sua convinzione, non avrebbe posto domande, a differenza di un dubbioso il quale ha necessità di trovare un’adeguata e convincente risposta a tutti suoi quesiti.
In una società come la nostra che del tutto inconsciamente - ormai sono più di due secoli che si comporta così – tende a cercare sotto l’aspetto sociale una contropartita a ciascuna sua prestazione, in pratica un costante do ut des, il discorso cristiano della gratuità, che dovrebbe essere alla base di ogni credente e ancor più di ogni sacerdote, può sembrare incomprensibile, per non essere definito addirittura totalmente utopistico.
Però, l’autentico cristiano, deve potersi distinguere per questo concetto basilare della gratuità e del resto il Vangelo in proposito non è soggetto a interpretazioni contrastanti, anzi è chiaro ed è la risposta a qualsiasi domanda: chi crede deve dare senza contropartita, senza chiedere qualcosa in cambio.
E’ evidente che il concetto si scontra con l’uso ormai radicato di trarre da qualsiasi propria prestazione il massimo vantaggio economico possibile. Ma perché deve essere gratuito il donare del cristiano? Perché in questo modo restituisce quanto Dio gli ha donato gratuitamente e questo dono della divinità trae origine dall’unico modo con cui può rapportarsi con gli uomini, dato che è impossibile, essendo solo l’amore, che faccia calcoli interessati. Pensate un attimo come sarebbe bello se ognuno di noi si donasse agli altri, i quali a loro volta si donerebbero a noi. Non ci sarebbero più proprietà, i confini sarebbero qualcosa di ignoto e non essendoci più beni da sottrarre alla disponibilità di altri non ci sarebbero più guerre. Purtroppo però l’esperienza insegna che il Vangelo non è mai stato applicato nella sua integralità se non da pochissimi e quindi la gratuità è quella che possiamo definire una chimera.
Nel libro Luisito Bianchi interpreta tre parti: quella del credente, quella dello scettico, nonché quella dell’euchairista, il cui compito è di sintetizzare gli aspetti positivi dei due dialoganti. Ne scaturisce un libro indubbiamente non facile, perché da un lato c’è una nostra inconsapevole ritrosia ad accettare la gratuità e dall’altro c’è un verbo religioso che sovente esula dalla materialità delle nostre convinzioni, e di ciò l’autore è consapevole definendo le sue inevitabili riflessioni come fumose, ma anche aggiungendo che ciò che non è facile e che impegna particolarmente necessita inevitabilmente che vi si torni su più volte, senza lasciarci scoraggiare dal primo approccio.
Da leggere, seguendo anche i consigli di Luisito Bianchi.
Il 26 aprile del 1944 due ufficiali inglesi, il capitano William Stanley Moss e il maggiore Patrick Leigh Fermor, entrambi membri del SOE, il braccio operativo dei servizi segreti, con l’aiuto di tre partigiani locali rapirono a Creta il comandante tedesco dell’isola, il Generale Heinrich Kreipe. Il piano, meticolosamente studiato, prevedeva inoltre che l’ufficiale tedesco fosse trasportato attraverso l’isola, transitando dal monte Ida di mitologica memoria fino alle spiagge meridionali per lì essere imbarcato su nave con destinazione l’Egitto. Se la prima parte dell’operazione era di abbastanza semplice realizzazione, grazie al travestimento con divise tedesche dei due ufficiali inglesi, il resto si presentò da subito di notevole difficoltà, nonostante gli aiuti tangibili dei partigiani cretesi. Infatti il sequestro scatenò la reazione delle truppe germaniche che batterono il territorio palmo a palmo, senza risultati però, poiché dopo giorni e giorni di scarpinate, gli audaci rapitori, sempre tirandosi dietro il loro ostaggio stranamente abbastanza collaborativo, giunsero all’appuntamento convenuto e conclusero felicemente la missione.
Scritto sulla base del diario tenuto per l’occasione da William Stanley Moss, che molto opportunamente ha saputo raccordare gli episodi della fuga riuscendo in tal modo a ricreare la scorrevolezza di un romanzo, Brutti incontri al chiaro di luna sembrerebbe più un’opera di creatività che un resoconto storico, un po’ anche per la sottile ironia, tipicamente inglese, che lo permea e che rende la lettura per nulla affaticante, anzi gradevole.
Resta tuttavia una domanda, relativamente alla vicenda: a che pro rapire Kreipe? In effetti il piano era stato elaborato per mettere le mani sul suo predecessore, il feroce generale Friedrich-Wilhelm Müller, un criminale di guerra, ma il trasferimento di quest’ultimo rischiò di vanificare mesi di lavoro e allora si decise di procedere lo stesso con un’azione puramente dimostrativa, che ebbe però una vasta risonanza e fornì un’ulteriore prova dell’ormai inarrestabile disfacimento della macchina bellica tedesca.
Anni fa ho avuto modo di vedere il film tratto dallo stesso, Colpo di mano a Creta, interpretato da Dirk Bogarde e da David Oxley, pellicola che mi era piaciuta, e quindi è stato naturale voler verificare la corrispondenza fra il testo scritto e il lungometraggio ricavato dallo stesso. Mi hanno soddisfatto entrambi, anche se il film è secondo me più riuscito, non ha quella lentezza che ho trovato nel libro e che smorza non poco lo stato di tensione che deve avere per forza accompagnato i rapitori nel loro viaggio verso la salvezza.
Comunque Brutti incontri al chiaro di luna resta un’opera sicuramente interessante e meritevole di lettura.
Dalla penna dell’autore di Fatherland, un bellissimo romanzo distopico da cui è stato tratto l’omonimo film di grande successo mirabilmente interpretato da Rutger Hauer, è uscito questo libro che mi ha letteralmente avvinto dalla prima all’ultima pagina. Corre l’anno 1660 e in Inghilterra ritorna la monarchia dopo gli undici anni della repubblica di Oliver Cromwell, repubblica nata con la condanna a morte eseguita per decapitazione di Re Carlo I Stuart, a cui ora è subentrato il figlio Carlo II che vuole un taglio netto con il passato, perseguitando i ribelli e dando in particolare la caccia a quelli che hanno sottoscritto la sentenza grazie alla quale il padre è stato giustiziato. E’ così che vengono rintracciati quasi tutti i firmatari, che vengono poi condannati a morte, ma c’è chi riesce a fuggire, in particolare Edward Whalley e suo genero William Goffe. Non si nascondono in Inghilterra, ma riescono a salpare per l’America e ad arrivare là nelle nuove colonie. Sulle loro tracce il governo mette Richard Nayler, un autentico mastino, grato per l’incarico anche perché in tal modo conta di concretizzare una vendetta personale. I due uomini, seguaci del puritanesimo, per quanto aiutati dai confratelli, conducono una vita errabonda, fatta di paure e senza prospettive. Non vado oltre, perché se dovessi raccontare tutto farei un dispetto a chi intende leggere il romanzo e poi anche perché, per quanto dovessi cercare di essere succinto, finirei comunque per essere eccessivamente prolisso, circostanza certamente non idonea per una piacevole lettura a video.
Preferisco invece soffermarmi sui pregi dell’opera e sull’unico difetto, che lascio per ultimo.
La caccia all’uomo che intraprende Nayler e che durerà una ventina d’anni impone al romanzo un ritmo incalzante, con l’inevitabile desiderio del lettore di sapere le mosse successive; l’atmosfera non manca, anzi è ricreata in modo pregevole, con questi due uomini che sono in fuga senza concrete speranze di cambiare la loro sorte, in una tensione che a tratti sgomenta. Anche l’ambientazione è resa benissimo, con la descrizione del mondo dei puritani, della vita nelle nuove colonie, con i contatti non sempre pacifici con i nativi.
Pur senza dilungarsi nella descrizione della fisionomia dei protagonisti (i due uomini in fuga e il loro cacciatore) l’autore riesce a ricreare l’aspetto di questi uomini, che varia mano a mano che passano gli anni, in un susseguirsi di eventi di cui progressivamente diventiamo partecipi.
La vicenda è veramente riuscita (Harris, in una nota iniziale, premette che è la libera ricostruzione di una storia vera, cioè la ricerca dei regicidi e in particolare di Edward Whalley e William Goffe, personaggi esistiti veramente e oggetto della caccia di Richard Nayler, protagonista che invece è del tutto inventato; i fatti, le date e i luoghi sono poi quelli in cui si è svolta questa caccia implacabile). Insomma, siamo in presenza di un romanzo storico basato su fatti realmente accaduti e forse anche per questo è in grado di avvincere così tanto. La conclusione poi non è per nulla scontata ed è la classica ciliegina sulla torta.
E l’unico difetto? L’unico difetto è che arrivati a pagina 444, l’ultima del libro, la lettura purtroppo termina, nonostante la disponibilità a conoscere eventuali ulteriori sviluppi.
Da leggere.
Il Tribunale speciale del fascismo, fortemente voluto, oltre che dal duce, anche dall’Ovra, l’organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo, entrò in funzione il primo di febbraio del 1927 e continuò a operare fino al 25 luglio del 1943. Superati, non senza patemi d’animo, gli effetti nefasti del delitto Matteotti, il regime vide la necessità di stroncare qualsiasi velleità di oppositori ormai clandestini per ottenere, se non il pieno consenso del popolo italiano, almeno la possibilità di dominare senza il benché minimo ostacolo e la nuova istituzione giuridica, alla cui guida erano chiamati fascisti di comprovata fede, andava bene allo scopo, contribuendo ad alimentare un’atmosfera di sospetti e di terrore tipica di tutti i totalitarismi ed indispensabile per potersi reggere. Nel solo primo decennio giudicò ben 10.693 imputati, assolvendone tuttavia 7.581 e irrogando pene, compresa quella di morte, per la differenza (76 furono le condanne a morte, di cui 58 eseguite). Non si creda tuttavia che questo tribunale avesse piena autonomia decisionale, perché in effetti in non pochi casi concertò con il duce condanne e relative pene.
Restavano tuttavia in mano al collegio giudicante ampi poteri, quasi sempre sfruttati a vantaggio personale, il che accentua il senso di disgusto che prende il lettore nel leggere questo interessantissimo saggio di Mimmo Franzinelli. La circostanza che tuttavia più sgomenta è che, a liberazione avvenuta, con il decreto di amnistia di Palmiro Togliatti i componenti del Tribunale speciale non solo non ebbero a patire conseguenze penali, ma furono reintegrati nella magistratura ordinaria, mentre i loro condannati continuarono a essere trattati come sovversivi. Si spiega così l’immaturità di un popolo incapace di fare i conti con il proprio passato e così pronto a ricadere nei medesimi errori. Il saggio di Franzinelli è ben strutturato e aiuta non poco a comprendere come era questo tribunale e come ebbe a funzionare. Di capitolo in capitolo ( Una giustizia speciale, I tre presidenti, Magistrati in camicia nera, I processi per gli attentati a Mussolini, Plotone d’esecuzione, Gli irriducibili, Delitti d’opinione, Segreti e retroscena, Donne alla sbarra, Il Tribunale in guerra e Soppressione ed eredità del Tribunale speciale) si ha un quadro completo del famigerato Tribunale speciale e di certo non basato su illazioni, ma supportato da prove documentali come sempre espressamente citate in appendice.
Quel che stupisce però nel libro è che alla completezza della disamina e delle notizie si accompagna una narrazione organica e chiara, tale da rendere la lettura veramente gradevole, elemento non frequente nel caso di saggi storici e che impreziosisce notevolmente l’opera.
Ultime recensioni inserite
Il bambino di Salisburgo - Edgarda Ferri
Mi è venuta improvvisa la voglia di citare la Divina Commedia, laddove, nel Purgatorio, Virgilio si rivolge a Catone l’Uticense presentandogli Dante e gli dice “Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” con riferimento al suicidio del politico romano, un atto estremo per non incappare nell’umiliazione di chiedere la grazia a Giulio Cesare.
Viene logico chiedersi che relazione ci sia fra un personaggio vissuto nel primo secolo avanti Cristo e il grande musicista austriaco che consumò la sua breve esistenza nella seconda metà del diciottesimo secolo.
Una risposta esauriente si può trovare nella bellissima biografia scritta da Edgarda Ferri, che evidenzia l’irrefrenabile desiderio del compositore salisburghese di essere finalmente libero di condurre la propria esistenza, senza la presenza oppressiva del padre che, con continui ricatti, gli impose di vivere secondo il suo punto di vista, incurante delle legittime aspirazioni del figlio. A differenza di Catone Mozart non si suicidò, ma di certo, unitamente alla circostanza che si era appannato con la maggiore età il mito del bambino prodigio, aveva finito per condurre un’esistenza grigia e senza soddisfazioni, comportandosi come un fallito anche se non lo era e non accettando quella normalità che non gli era mai stata propria. Per dirla in breve non si suicidò, ma nulla fece per vivere.
Il libro è bello, sotto ogni aspetto, la narrazione di Edgarda Ferri è puntuale e precisa, nulla le sfugge di una vita così intensa quale è stata quella di Mozart durante l’infanzia; descrive bene i personaggi, soprattutto Leopold Mozart, il padre padrone del piccolo genio, un uomo che vede nel figlio quella possibilità di successo e di fama da lui sempre agognati e mai raggiunti. La brama di arrivare incombe continuamente sul piccolo Mozart, escludendo perfino la sorella Nannerl, che pure avrebbe avuto grandi possibilità di affermarsi con il suo talento musicale. Le descrizioni dei viaggi, gli incontri con i reali dell’epoca, la felicità infantile di Amadeus che con il trascorrere degli anni, raggiunta la maggiore età, si trasforma in insoddisfazione, stante la pressione paterna, l’incapacità del giovane di sottrarsi a questo vincolo opprimente, il declino fra ristrettezze tali che, da morto, finirà in una fossa comune, sono descritti mirabilmente e con una vena di compassione per un uomo a cui non fu permesso di vivere normalmente.
Secondo me Mozart è stato il più grande compositore di tutti i tempi, un compositore universale, stante la sua grandezza nella musica classica, in quella sacra, in quella sinfonica e in quella operistica, ma è stato anche e soprattutto un essere umano che ha cercato sempre, senza mai ottenerla, un po’ di libertà.
Da leggere, più che un consiglio è una raccomandazione.
L'ufficiale e la spia - Robert Harris
L’affare Dreyfuss è stato indubbiamente il caso più noto di condanna di un innocente in forza di pregiudizi razziali prima, e di delirio di onnipotenza dopo, quando ci si accorse che il condannato non era colpevole.
Alfred Dreyfuss, ufficiale di artiglieria alsaziano ed ebreo, fu imputato di tradimento unicamente sulla base di un documento rinvenuto nell’immondizia dell’ambasciata tedesca a Parigi, documento scritto a mano con una calligrafia simile alla sua. E poiché la prova non era sufficiente per una condanna, si provvide a costruirne altre, peraltro in modo dilettantesco.
Condannato alla deportazione perpetua nella tremenda isola del Diavolo nei pressi della Guyana francese, la sua sorte sarebbe stata segnata se uno dei militari che avevano preso parte al suo arresto, l’allora maggiore Georges Picquart, divenuto capo del Controspionaggio non avesse per caso notato alcune incongruenze nelle prove d’accusa. Dato che la storia è lunga, non sto a scriverla tutta, anche perché è nota, sto solo a evidenziare come un fatto del genere sia potuto avvenire anche per un rigurgito nazionale di antisemitismo; basti solo sapere che occorse parecchio tempo per porre rimedio all’ingiustizia, che lo stesso Piquart fu incriminato per aver cercato di portare alla luce la verità, che ci furono diversi processi prima che Dreyfuss fosse riabilitato e reintegrato nell’esercito con il grado di maggiore. Andò ancora meglio al tenente colonnello Picquart, prima espulso dall’esercito, poi riammesso con il grado di generale di brigata e che riuscì anche a diventare Ministro della Guerra.
Da questa vicenda ampiamente conosciuta Robert Harris ha tratto un romanzo storico, il più possibile aderente allo svolgimento dei fatti, che vengono narrati proprio da Georges Picquart.
Se devo essere sincero avevo il non infondato timore, prima di leggere, di potermi trovare di fronte a una specie di polpettone, perché la storia è complessa, i personaggi sono numerosi e pressoché tutti veri e spesso di grande notorietà, come Georges Clemenceau ed Emile Zola, quello della famosa lettera pubblicata su L’aurore il 13 gennaio 1898 e rivolta al Presidente della Francia che comincia con “J’accuse”.
Invece è risultato un romanzo che, oltre a essere di notevole interesse, è di facile e appassionante lettura.
Harris ricrea nel migliore dei modi l’ottusità di un certo mondo militare disposto a tutto pur di non dover ammettere l’errore, l’ignoranza diffusa di un popolo che prova ancora la cocente delusione per la sconfitta subita dai tedeschi nel 1870 e che trova, nella sua incapacità di darsi pace, i capri espiatori più facili, gli ebrei. Così il tradimento di cui è incolpato Dreyfuss ha il suo peso nell’ossessione del nazionalismo, ma lo è ancor di più perché ebreo, e ovviamente è visto male e allo stesso modo chi, cercando la verità, difende un uomo, che ha il difetto di essere ebreo.
Il libro è semplicemente stupendo, si inizia a leggere e non ci si fermerebbe mai, nonostante le sue 448 pagine. A titolo di notizia, nel 2019 è uscito nelle sale cinematografiche un film tratto dal romanzo, diretto da Roman Polanski; la pellicola ha avuto grande successo e fra i numerosi riconoscimenti si è anche aggiudicato Il Gran premio della giuria alla 76a Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia.
Non credo sia necessario aggiungere altro.
Le ultime lune - Furio Bordon
Le ultime lune è una pièce teatrale in due atti scritta da Furio Bordon nel 1992 quando era direttore artistico del Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia e che debuttò nel 1994 il 10 novembre al Teatro Carlo Goldoni di Venezia per la regia di Giulio Bosetti e l´interpretazione di Marcello Mastroianni (il padre), di Erika Blanc (la madre) e di Giorgio Locuratolo (il figlio). Fu un immediato successo, tanto che il dramma è stato tradotto in venti lingue e rappresentato in trenta paesi.
Perché questo straordinario esito favorevole, che cosa ha indotto migliaia di spettatori ad accorrere per vedere questa pièce?
Si tratta dell´argomento trattato, di quella vecchiaia che è propria di tutti gli esseri umani, e che Furio Bordon ha saputo fare oggetto di una particolare riflessione, da cui scaturiscono i drammi, piccoli e grandi, e anche le dolcezze di questa ultima età. Nella vicenda dell´anziano che è per l´ultima volta nella sua camera, solo e in attesa del ritorno dal lavoro del figlio che lo condurrà poi a una casa di riposo, si specchia ineluttabile un destino di tanti a una certa età e proprio a una certa età, non potendo vivere in funzione del futuro, si vive del passato; è così che l´uomo inganna il tempo che gli manca per la partenza conversando con la moglie morta da molto tempo, un colloquio struggente che ripercorre tutta una vita e che gli fa dire " La felicità è tutta nel passato." Poi, arriva il figlio e ii discorso diventa fra vivi, con qualche bisticcio anche, e ancora con gli interventi della moglie, che è quella parte dell´anima del vecchio che lo rende ritroso a lasciare la casa, consapevole che la prossima dimora sarà quella in cui finirà con il morire. E´ molto bello anche il tentativo, blando, del figlio di trattenerlo, blando perché comprende le ragioni del padre, ma è anche vero che non si sente di avere fra quelle quattro mura un morituro, a parte l´egoismo di avere a disposizione una camera in più per i figli. Finisce il primo atto e si arriva al secondo, con l´anziano che ormai ospitato a Villa Delizia si è ritagliato un angolo di indipendenza in una soffitta dove coltiva una pianta di basilico, quasi a voler affermare il desiderio di veder crescere una vita fra tante che lentamente si spengono. E lì, nell´attesa di oltrepassare l´ultima porta, accomunati tutti dallo stesso destino come i soldati in una trincea, lui, in un ultimo sussulto, decide di non lasciarsi andare, di non anticipare la sua dipartita, riscopre la sacralità della vita che merita di essere vissuta fino all´ultimo, con l´unico desiderio di scegliere il tempo per la sua morte. Gli piacerebbe tanto a Natale, con il grande albero illuminato, in mezzo alla piazza, mentre la neve cade lenta.
Sì, la felicità è nel passato, ha proprio ragione Furio Bordon.
Da leggere, è un capolavoro.
Squadristi - Mimmo Franzinelli
Quando si parla di fascismo la prima cosa che viene in mente sono le squadracce di personaggi truci, armati di manganello, pugnale e qualche volta di pistola e bombe a mano, intente a bastonare gli oppositori politici e a far ingurgitare loro abbondanti dosi di olio di ricino. Però, è talmente prevalente la loro turpe fama che spesso e volentieri si finisce con l´ignorare la loro storia, i motivi per cui sono nate, gli scopi e il loro utilizzo per l´affermazione politica di Mussolini e del fascismo.
Per chi vuol sapere di più su questi "bravi" mussoliniani basta leggere Squadristi, un saggio storico del sempre eccellente Mimmo Franzinelli. Dato che l´opera, come d´abitudine accompagnata dall´indicazione delle fonti, è lunga ben 464 pagine non intendo assolutamente scriverne un riassunto che, oltre tutto, non potrebbe essere breve, ma mi limiterò a evidenziarne la struttura e le caratteristiche.
Al riguardo il periodo preso in considerazione è quello in cui appunto si manifestarono queste squadre d´azione, costituite da nuclei di attivisti chiaramente nazionalisti volti a osteggiare gli avversari politici, ricorrendo alla forza, non di rado arrivando anche ad uccidere. Sorte nel 1919 furono il braccio armato del fascismo, perseguitando dapprima i socialisti e, dopo la scissione di Livorno, anche i comunisti; ne furono vittime peraltro anche democratici di tendenze diverse e addirittura dei sacerdoti.
Franzinelli non è uno storico superficiale e la sua analisi del fenomeno è particolarmente profonda e ben strutturata perché, per comprendere le origini, parte dalle ispirazioni che animarono i futuristi e dalle insoddisfazioni di certi fegatacci, come molti ex arditi. Inoltre esamina il fenomeno non solo relativo alle città, ma anche alle campagne in cui non pochi proprietari terrieri foraggiarono il fascismo, vedendo nel movimento e nelle squadre d´azione l´unica risorsa per combattere con successo una sinistra divisa e in parte ispirata al marxismo sovietico. Lo stato liberale, dapprima equidistante, vide tuttavia nell´estrema destra la garanzia per la sua esistenza e fece una scelta precisa, la stessa che consentirà a Mussolini di arrivare al potere con una marcia puramente dimostrativa. Un ampio capitolo poi è dedicato alle stragi compiute dalle squadre d´azione, quali il massacro di Roccastrada avvenuto il 24 luglio 1921, quando a seguito dell´uccisione dello squadrista grossetano Ivo Saletti, al termine di una spedizione punitiva proprio a Roccastrada, vennero per ritorsione uccisi una decina di contadini e furono date alle fiamme una ventina di case del paese. Non potevano poi mancare pagine della marcia su Roma, che tuttavia non pose fine alle intimidazioni e alle violenze fasciste, e al riguardo basti pensare all´omicidio di Giacomo Matteotti. Di particolare interesse, poi, in conclusione sono la cronologia delle violenze politiche (1919-1922) e il dizionario biografico del fascismo, con quest´ultimo che riporta i nominativi, con tanto di cronistoria soprattutto delle loro gesta, di squadristi particolarmente attivi, il tutto completato da fotografie dell´epoca in tema.
La lettura è estremamente interessante, l´analisi di Franzinelli, equilibrata, è molto approfondita e in grado di rendere edotti di questo tragico fenomeno. Di conseguenza, Squadristi è un altro lavoro dello storico bresciano meritevole di attenzione.
Il piccolo principe - di Antoine de Saint-Exupery
Ci si può chiedere che senso abbia leggere oggi, o meglio rileggere, una favola a cui mi sono avvicinato, se la memoria non m’inganna, che avrò avuto all’incirca undici-dodici anni anni, e quindi più di una sessantina di anni fa. I motivi possono essere i più vari, quali ritrovare un sogno di giovinezza, ma credo soprattutto che si sia trattato di verificare se quest’opera - che non avevo disprezzato, ma che neppure mi aveva entusiasmato - alla luce di un’abbondante maturità potesse confermare il lontano giudizio, oppure se dovesse esserci una variazione, in positivo o in negativo, dello stesso.
In questa rilettura pesa non poco l’esperienza maturata, il disincanto che è proprio dei vecchi, la difficoltà di vedere con gli occhi di un bambino. Eppure, non posso nascondere che la favoletta ha un suo fascino, rammentando che nella vita sono importanti valori come l’amicizia, l’amore, l’altruismo, senza dimenticare che in noi c’è un bene inestimabile, quell’innocenza propria dei bambini che dobbiamo cercare di conservare nonostante il trascorrere del tempo, le gioie e soprattutto i dolori che accompagneranno la nostra esistenza. In questo senso Il piccolo principe, più che una favola, è un sogno a occhi aperti fatto da un uomo maturo negli anni, ma fanciullo nell’animo, un uomo che ha trovato nel volo quella libertà che ha sempre cercato e che gli ha consentito quella saggezza che è propria di quell’omino, il piccolo principe, giunto sulla terra, guarda caso, dal cielo, su un asteroide. Chi viene da lontano, chi non è inserito in un sistema, può vedere meglio le storture dello stesso ed è quello che fa questo essere spaziale, con una lezione di civiltà di rara efficacia. E’ il mondo degli adulti oggetto delle critiche, adulti che hanno persa la purezza dei bambini, ed ecco allora l’importanza di conservare dentro di sé l’innocenza primitiva.
Certo è che viene spontaneo il raffronto con Il fanciullino di Giovanni Pascoli, perché entrambi gli autori, in epoche certamente diverse, hanno saputo cogliere il segreto per un mondo migliore, un mondo in cui ci si possa ancora stupire delle piccole cose, dove l’affetto non deve avere interessi e in cui sia possibile ritrovare noi stessi quali eravamo prima dell’età adulta, spesso immemori dei sogni e dei desideri di quando eravamo bambini.
In pratica con Il piccolo principe Antoine de Saint-Exupery ci insegna che dobbiamo vedere con il cuore, perché quello che conta, l’essenziale, è invisibile ai nostri occhi.
E’ una grande messaggio, scritto da un uomo che con il tempo è diventato un mito e come tutti i miti è pure immortale, perché nulla si sa della sua fine, del perché non sia ritornato durante la guerra da una missione, ma soprattutto perché immortale è il messaggio che ci ha lasciato con Il Piccolo Principe.
Se avevo delle riserve quando espressi il mio giudizio una sessantina di anni fa, queste sono sciolte e il risultato è che mi ha talmente soddisfatto da raccomandarne la lettura ai bambini, ma anche ai grandi, perché, cercando dentro di noi, è sempre possibile trovare almeno una traccia di quel bimbo che eravamo.
Enigma - Robert Harris
Ultimato di leggere questo libro mi sono accorto che la tensione che mi aveva trasmesso era ancora palpitante, una sensazione che raramente mi era accaduta con altri romanzi del genere. Se per circa tre quarti si è presi dalle difficoltà che incontrano i decifratori inglesi per leggere in chiaro i messaggi tedeschi, un lavoro più da scrivania che da agenti segreti quali noi conosciamo, la parte finale ha un’accelerazione notevolissima e l’azione prende il sopravvento. La trama è veramente ben congegnata e come al solito parte da alcune verità, come appunto la macchina Enigma, un dispositivo elettromeccanico per cifrare e decifrare i messaggi, utilizzato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Nonostante fosse stata più volte modificata e potenziata, un folto gruppo di esperti riuscì a violarla e furono proprio gli inglesi, guidati dal grande matematico Alan Turing, a ideare il sistema Ultra di decodificazione, grazie anche al fatto di aver potuto mettere le mani nella primavera del 1941 su un apparato Enigma intatto e sui documenti di cifratura, reperiti nell’interno di un sommergibile tedesco catturato dopo un attacco dello stesso a un convoglio alleato.
La possibilità di conoscere in chiaro i messaggi cifrati del nemico fu di fondamentale importanza per gli esiti della guerra, al punto che gli inglesi misero a punto un complesso sistema di intercettazione e decifrazione; il romanzo parla soprattutto di quest’ultima attività, con un genio della matematica Tom Jericho che viene richiamato urgentemente in servizio prima del tempo da un periodo di riposo della mente sovraffaticata dalla complessità dei calcoli. E’ con questo rientro a Bletchley Park, nota anche come stazione X, luogo a 75 Km. da Londra e principale sito di crittoanalisi del Regno Unito, che prende avvio una vicenda intricata, ma ad alta e crescente tensione.
L’ambientazione è resa in modo estremamente realistico e anche la descrizione dei protagonisti è di elevato livello, come la fine analisi psicologica.
Il bello però del romanzo è che quando si crede di aver capito tutto ci si accorge che ci sono ancora dei punti oscuri che necessitano di essere chiariti e l’autore lo fa immediatamente, seguendo un percorso di ineccepibile logicità. Da Enigma è stato tratto, come nel caso di altre opere di Robert Harris, un film, uscito nelle sale nel 2001, diretto da Michael Apted e interpretato da Dougray Scott e Kate Winslet, che riscosse, come il libro, un grande successo.
Da leggere, è un capolavoro nel genere delle spy story.
Il soldato perduto - Gilles Marchand
Sulla tragedia della guerra e con intenti pacifisti sono stati scritti due libri, giustamente diventati famosi, Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich Maria Remarque, e Un anno sull´altipiano, di Emilio Lussu; inoltre ci sono state altre pubblicazioni, valide, ma di minor fortuna, e fra queste ho avuto occasione di leggere circa quattro anni fa quel gioiellino di Ballata senza nome, di Massimo Bubola, noto autore di musica leggera prestato occasionalmente alla letteratura.
E´ invece di questi giorni la mia lettura di Il soldato perduto, di Gilles Marchand, un francese che ha un trascorso di batterista in un gruppo rock. Ebbene, sono rimasto notevolmente impressionato da questo romanzo di amore e di guerra, in cui la retorica è bandita sin dall´inizio, anzi potrei dire che trionfa l´anti retorica con descrizioni che sanno essere asciutte e drammatiche quando serve e che assumono una nota poetica quando è indispensabile.
In breve è la storia della ricerca di un soldato di cui non si sa più nulla, su incarico della madre aristocratica e danarosa, ricerca condotta da un reduce della Grande Guerra nel corso della quale ha avuto la mutilazione della mano sinistra. Nonostante questa disgrazia, anche per non pensarci, non aveva rinunciato a combattere, ma, stante l´invalidità, grazie a una protesi posticcia, era stato messo a condurre degli autocarri lungo la Via Sacra che portava a Verdun. Finita la guerra è tornato a casa e ha potuto riabbracciare l´amata che tuttavia in poco tempo è stata stroncata dalla febbre spagnola. Solo, convinto anche di non aver fatto del tutto il suo dovere, arrotonda la pensione con incarichi di familiari che vogliono sapere dove si trova il loro caro, dato per disperso. E´ appunto questo il caso di Emile Joplain, un ragazzo sensibile e poeta, innamorato di una cameriera che serviva in famiglia, amore contraccambiato, ma irriducibilmente osteggiato dalla madre di lui. La ragazza, cacciata dal servizio, ritorna casa, in Alsazia, ma scoppia la Grande Guerra. Il mutilato si appassiona a questa indagine e cerca di ricostruire i passi dei due amanti, che, benché divisi, si cercano. E´ un´indaginea che apre squarci sugli orrori della guerra, sull´insensatezza degli uomini, sulle miserie di tanti poveri cristi e viene così a sapere di una donna che di notte vaga nella terra di nessuno, fra le opposte trincee, e si ferma di fronte ai feriti chiedendo loro se sanno dove si trovi il suo amato. Sembra una favola, tanto che non sapendo il nome della donna viene chiamata la Figlia della Luna. Ma quella che sembra una leggenda non lo è, è un grande, infinito atto d´amore.
Non vado oltre perché l´indagine ha la tensione del giallo e poi ovviamente si arriva alla soluzione, che non è proprio quella che il lettore spera.
E´ inutile che dica che questo romanzo ingenera un grande pathos, è un´emozione continua e crescente, è un´attesa fatta di speranze e di delusioni, è il piacere, in una tragedia, di leggere dei versi sublimi, così che si arriva alla fine più che mai convinti dell´inutilità delle guerre, riassunta peraltro in una frase del libro che riporto e che dice tutto, riguardo a dei prigionieri tedeschi:
" Se avessimo saputo che un crucco non era altro che un francese che parla tedesco avremmo fatto fatica a continuare a sparargli addosso.".
Leggetelo, non ve ne pentirete, e credo proprio che non pochi in qualche loro sogno vedranno la Figlia della Luna aggirarsi di notte su un campo di battaglia.
V2 - Robert Harris
Il missile V2 è stato il precursore di tutti i missili balistici e fu ampiamente utilizzato dalla Germania nazista a partire dal 1943 e fino alla fine della seconda guerra mondiale senza che potesse avere tuttavia un´incidenza sul decorso della stessa. Come arma di rappresaglia e con obiettivi Londra e Anversa fu indubbiamente efficace, portando lutti e rovine, ma non fu assolutamente in grado di invertire le sorti del conflitto.
Il libro di Robert Harris parla delle manovre adottate nel 1944 dagli inglesi per contrastare la pioggia di V2 che cadevano inesorabili sulla loro capitale e sul grande porto belga, cercando di distruggere i siti di lancio ubicati sulla costa olandese. Il romanzo ha un incipit felicissimo, con una coppia a letto sulla cui casa a Londra cade uno di questi missili. Si salvano entrambi, lui con diverse fratture, lei con un graffio; entrambi prestano servizio nell´Aeronautica, lui come commodoro, lei quale ufficiale addetta alle interpretazioni delle fotografie aeree. Inizia così la narrazione coinvolgendo, un capitolo per ognuno, da un lato Kay Caton Walsh, l´ufficiale ausiliario di cui sopra, e dall´altro l´ingegnere tedesco Rudolf Graf, il padre, insieme a Werner von Braun, di quest´arma micidiale.
Così mentre si sviluppa il metodo per cercare di scoprire i siti di lancio grazie al radar e al calcolo della traiettoria a ritroso dal punto di caduta, dall´altro leggiamo delle complesse manovre di lancio e del veloce sistema di camuffamento.
E´ un romanzo dove la trama è predominante, perché se è vero che i due protagonisti, Kay Caton Walsh e Rudolf Graf destano simpatia (lei una bella donna in cerca di un uomo con cui costruire la sua vita, lui un talento della fisica profondamente disilluso), tuttavia l´autore non approfondisce più di tanto la loro psicologia, tutto preso come è a far scorrere senza intoppi e nel migliore dei modi la vicenda. Il bello è che i due personaggi, che lavorano ovviamente distanti l´uno dall´altro, a guerra finita si incontreranno, lasciando intuire che non si tratterà di un contatto occasionale. E anche in questo il romanzo non brilla per originalità, per quanto la soluzione sia una di quelle che in genere è particolarmente apprezzata dai lettori.
V2 comunque resta un libro di più che gradevole lettura, uno di quelli che non impegnano più di tanto, ma che consentono di trascorrere piacevolmente qualche ora.
I carnefici del duce - Eric Gobetti
E´ ancora in uso la vulgata degli "italiani brava gente", riferita al comportamento dei nostri soldati nel corso della seconda guerra mondiale, ma si tratta di una formula auto assolutoria, benché ci siano stati effettivamente italiani dal comportamento umano. Purtroppo non sono stati pochi quelli che avrebbero meritato di finire davanti a un tribunale per essere giudicati per i gravi fatti compiuti, fatti raccapriccianti che nelle nostre colonie e nei Balcani hanno assunto le caratteristiche del genocidio. Quindi, come i famigerati tedeschi, ci sono stati anche i criminali italiani, che pur tuttavia non hanno pagato per le loro gravi colpe.
A parte il famoso processo di Norimberga, nel dopo guerra in Germania vi furono altri numerosi procedimenti giudiziari, conclusi con diverse condanne, ivi comprese le pene capitali, in buona parte eseguite (i tribunali della Repubblica Federale giudicarono 16.740 cittadini tedeschi, con 16 condanne a morte e 116 all´ergastolo). Lo stesso dicasi per il Giappone, dove sentenze con l´irrogazione della pena capitale sono state frequenti (i processi furono all´incirca diecimila con centinaia di condanne a morte).
Da noi invece, a parte i pochi processi che potremmo definire una farsa, poco è mancato che agli incriminati fosse concessa una decorazione.
Le motivazioni risiedono soprattutto nel fatto che chi ebbe a giudicare era ancora legato all´ideologia fascista, o parte attiva della casta militare, insomma per farla breve tutti i nostri criminali di guerra scamparono alla giusta condanna, con il risultato che quando un popolo non fa i conti con il suo passato è irrimediabilmente condannato a ripetersi negli errori.
Per fortuna che gli storici hanno preso atto della menzogna insita in "Italiani brava gente" e hanno portato alla luce i tanti casi di criminalità bellica, come per esempio Filippo Focardi con "Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale", edito da "Laterza", Gianni Oliva con "Si ammazza troppo poco. I crimini di guerra italiani 1940 - 43", pubblicato da Mondadori e Angelo Del Boca con "Italiani brava gente? Un culto duro a morire", edito da Neri Pozza.
Eric Gobetti con questo "I carnefici del Duce" vuole anche lui portare alla luce fatti e misfatti dei nostri militari, sia nelle colonie (Etiopia e Libia), sia nei Balcani, zona geografica dove la nostra presenza avrebbe dovuto essere pacificatrice e dove invece provocammo, ad arte, tensioni e scontri fra i vari gruppi etnici, armando gli uni contro gli altri, sloveni, croati, serbi, e montenegrini, senza ritrarre vantaggi da questo nostro comportamento.
Il saggio di Gobetti va oltre la segnalazione di singoli eccidi, perché ricerca il livello di responsabilità, soprattutto, oltre alle colpe dei comandanti, quelle dei soldati, quasi sempre militari non di carriera. Che cosa spinse questi esecutori materiali a mettere in pratica l´ordine criminale, che motivazioni avevano? Le risposte sono diverse: il contesto di violenza in cui operarono e commisero gli eccidi, un´idea del tutto ignobile, per quanto inculcata, di una patria che cercava uno spazio vitale con l´aggressione sistematica, il razzismo verso i coloni arabi e gli slavi, visti come esseri inferiori, e anche altri, tutti peraltro riconducibili al martellante indottrinamento di un ventennio di fascismo. Del resto, non ci si può esimere dall´evidenziare che qualora un regime stimoli la parte peggiore di noi questa finisce con il mostrarsi, con una violenza quasi sempre ingiustificabile, se non nel desiderio dell´individuo di diventare carnefice per sentirsi quello che non è, e cioè forte e coraggioso.
Non si tratta purtroppo di casi isolati, ma di centinaia, se non addirittura di migliaia di questi carnefici che spesso provavano ebrezza nell´uccidere e che così si credevano eroi (basti pensare ai quasi ventimila abitanti di Addis Abeba, trucidati dopo l´attentato a Graziani, in quello che a tutti gli effetti fu un progrom, con una caccia indiscriminata agli etiopici, non solo dei soldati, ma anche dei privati cittadini italiani). Poi ci fu invece chi riuscì a conservare la propria umanità, ma ciò non toglie che i nostri comportamenti furono generalmente ben poco apprezzabili, come per le sistematiche razzie di cibarie e altro, che immiserì gli occupati, quando non accadde di peggio, come nel caso dei circa trecentomila greci morti di fame.
Di certo non possiamo assolvere tutto con un "Italiani brava gente", se non vogliamo un giorno funesto ricadere nelle stesse colpe; gli anni sono passati, chi doveva essere giudicato è ormai scomparso, ma ciò non toglie che è giusto parlare di certi nostri comportamenti, affinché soprattutto i giovani sappiano che durante la guerra e le nostre occupazioni coloniali fummo tutt´altro che bravi.
Come un atomo sulla bilancia - Luisito Bianchi
La vita di Luisito Bianchi è stata sempre quella di un essere coerente con la propria fede, in cui il concetto evangelico della gratuità è irrinunciabile. Ma Luisito, come sacerdote e come uomo, aveva necessità di lavorare per vivere, pur accontentandosi di molto poco e così lui che aveva rinunciato allo stipendio statale di insegnante di religione in una scuola si mise a lavorare; fece il benzinaio, fece l´inserviente all´Ospedale Galeazzi, occupazione che dovette lasciare per assistere la madre ammalata, e trovò anche un lavoro come operaio. In quest´ultima veste il 5 febbraio 1968 varcò i cancelli della Montecatini di Spinetta Marengo, in provincia di Alessandria, come operaio turnista incaricato della lavorazione dell´ossido di titanio. Non a caso scelse la fabbrica, lo fece per comprendere sul campo i problemi del lavoro e per poter evangelizzare gli operai. Da questa esperienza durata circa un triennio è uscito questo libro, del tutto particolare perché a tratti può sembrare un romanzo, e altre volte invece sembrerebbe un diario o addirittura una raccolta di notizie di cronaca. Quel che è certo è che di quel periodo, delle impressioni avute, degli accadimenti che ci sono stati Luisito ha scritto, alcune volte anche ripetendosi, magari in forma diversa, ma quelle sensazioni, quell´insegnamento che ne ha ritratto costituisce un unicum nei libri sul mondo del lavoro.
In particolare vede con chiarezza la posizione subordinata dell´operaio, per così dire una figura che per la sua debolezza intrinseca rispetto al capitale è lo schiavo dei tempi moderni. Le sue osservazioni rivelano acutezza soprattutto quando rileva il ruolo dei sindacati, sempre più propensi ad accordi che non incidono sul ruolo subalterno dei propri rappresentati.
La grandezza del sacerdote e dell´uomo è nel portare avanti il discorso di una Chiesa che sia veramente casa di tutti gli uomini, soprattutto di quelli più deboli, ribadendo il concetto espresso nel Vangelo della gratuità, e quindi di una Istituzione priva di tesori e di potere, a differenza di quella che è sempre stata.
Sarebbe così una casa comune senza prevaricazioni dove si dà gratuitamente ciò che Dio gratuitamente ha dato. E´ un concetto bellissimo, ma di dubbia realizzazione, conoscendo bene, oltre alle caratteristiche degli ecclesiastici di palazzo, quelle di tutti gli uomini, ivi compresi gli operai.
Luisito a questa regola della gratuità si è attenuto tutta la vita, è stato certamente uno dei pochi e forse proprio per questo sarebbe meritevole di un riconoscimento tardivo, una beatificazione che però, credo, non gli sarebbe gradita, perché direbbe che ha fatto solo il suo dovere di autentico cristiano.
Da leggere, come tutte le opere di Luisito Bianchi.
Le sorelle Lacroix - Georges Simenon
Strana famiglia quella delle sorelle Lacroix: Matilde, sposata con un pittore vanesio che sta pressoché tutto il giorno rintanato nel suo atelier, con due figli, Jacques insofferente della vita monotona che caratterizza la casa, e Genevieve, una mistica che si è messa in testa di morire al compimento del diciottesimo anno; Leopoldine, coniugata con un tubercolotico che non c’è mai, perché sta sempre in Svizzera a curarsi, e la figlia Sophie, poco presente, quasi una figura di contorno. Ciò che caratterizza però queste persone è l’odio insanabile fra le due sorelle, che ha un origine ben precisa e che verrà svelata nel corso della narrazione (e non sarò di certo io a parlarne per non togliere ai lettori il piacere della scoperta). In realtà quella è una famiglia in cui l’odio è il motore per poter continuare a vivere, per consentire un permanente stato di tensione che è quasi una droga per le due sorelle. La vicenda è semplice nel complesso e c’è anche una tendenza a colorarla di giallo, senza che necessariamente vi sia un morto ammazzato.
Simenon, come sua caratteristica, fornisce un quadro di una famiglia borghese, in cui accanto all’odio è presente uno squallore che turba chi legge, anche perché la caratterizzazione dei personaggi e la fine analisi psicologica sono ai massimi livelli.
Le sorelle Lacroix sono delle figure, in negativo, difficilmente dimenticabili, un colpo da maestro del romanziere belga, verso le quali tuttavia mostra un atteggiamento di pietà, perché sono due esseri che per vivere hanno bisogno di odiarsi.
Da leggere, senza dubbio.
Dialogo sulla gratuita' - Luisito Bianchi
Luisito Bianchi, per parlare della gratuità, ha adottato un metodo del tutto particolare, che consente di non stancare il lettore e di venire incontro con le risposte alle sue possibili domande. Ha immaginato infatti una conversazione fra un credente e uno scettico, e non un ateo perché questo, chiuso nella sua convinzione, non avrebbe posto domande, a differenza di un dubbioso il quale ha necessità di trovare un’adeguata e convincente risposta a tutti suoi quesiti.
In una società come la nostra che del tutto inconsciamente - ormai sono più di due secoli che si comporta così – tende a cercare sotto l’aspetto sociale una contropartita a ciascuna sua prestazione, in pratica un costante do ut des, il discorso cristiano della gratuità, che dovrebbe essere alla base di ogni credente e ancor più di ogni sacerdote, può sembrare incomprensibile, per non essere definito addirittura totalmente utopistico.
Però, l’autentico cristiano, deve potersi distinguere per questo concetto basilare della gratuità e del resto il Vangelo in proposito non è soggetto a interpretazioni contrastanti, anzi è chiaro ed è la risposta a qualsiasi domanda: chi crede deve dare senza contropartita, senza chiedere qualcosa in cambio.
E’ evidente che il concetto si scontra con l’uso ormai radicato di trarre da qualsiasi propria prestazione il massimo vantaggio economico possibile. Ma perché deve essere gratuito il donare del cristiano? Perché in questo modo restituisce quanto Dio gli ha donato gratuitamente e questo dono della divinità trae origine dall’unico modo con cui può rapportarsi con gli uomini, dato che è impossibile, essendo solo l’amore, che faccia calcoli interessati. Pensate un attimo come sarebbe bello se ognuno di noi si donasse agli altri, i quali a loro volta si donerebbero a noi. Non ci sarebbero più proprietà, i confini sarebbero qualcosa di ignoto e non essendoci più beni da sottrarre alla disponibilità di altri non ci sarebbero più guerre. Purtroppo però l’esperienza insegna che il Vangelo non è mai stato applicato nella sua integralità se non da pochissimi e quindi la gratuità è quella che possiamo definire una chimera.
Nel libro Luisito Bianchi interpreta tre parti: quella del credente, quella dello scettico, nonché quella dell’euchairista, il cui compito è di sintetizzare gli aspetti positivi dei due dialoganti. Ne scaturisce un libro indubbiamente non facile, perché da un lato c’è una nostra inconsapevole ritrosia ad accettare la gratuità e dall’altro c’è un verbo religioso che sovente esula dalla materialità delle nostre convinzioni, e di ciò l’autore è consapevole definendo le sue inevitabili riflessioni come fumose, ma anche aggiungendo che ciò che non è facile e che impegna particolarmente necessita inevitabilmente che vi si torni su più volte, senza lasciarci scoraggiare dal primo approccio.
Da leggere, seguendo anche i consigli di Luisito Bianchi.
Brutti incontri al chiaro di luna - W. Stanley Moss
Il 26 aprile del 1944 due ufficiali inglesi, il capitano William Stanley Moss e il maggiore Patrick Leigh Fermor, entrambi membri del SOE, il braccio operativo dei servizi segreti, con l’aiuto di tre partigiani locali rapirono a Creta il comandante tedesco dell’isola, il Generale Heinrich Kreipe. Il piano, meticolosamente studiato, prevedeva inoltre che l’ufficiale tedesco fosse trasportato attraverso l’isola, transitando dal monte Ida di mitologica memoria fino alle spiagge meridionali per lì essere imbarcato su nave con destinazione l’Egitto. Se la prima parte dell’operazione era di abbastanza semplice realizzazione, grazie al travestimento con divise tedesche dei due ufficiali inglesi, il resto si presentò da subito di notevole difficoltà, nonostante gli aiuti tangibili dei partigiani cretesi. Infatti il sequestro scatenò la reazione delle truppe germaniche che batterono il territorio palmo a palmo, senza risultati però, poiché dopo giorni e giorni di scarpinate, gli audaci rapitori, sempre tirandosi dietro il loro ostaggio stranamente abbastanza collaborativo, giunsero all’appuntamento convenuto e conclusero felicemente la missione.
Scritto sulla base del diario tenuto per l’occasione da William Stanley Moss, che molto opportunamente ha saputo raccordare gli episodi della fuga riuscendo in tal modo a ricreare la scorrevolezza di un romanzo, Brutti incontri al chiaro di luna sembrerebbe più un’opera di creatività che un resoconto storico, un po’ anche per la sottile ironia, tipicamente inglese, che lo permea e che rende la lettura per nulla affaticante, anzi gradevole.
Resta tuttavia una domanda, relativamente alla vicenda: a che pro rapire Kreipe? In effetti il piano era stato elaborato per mettere le mani sul suo predecessore, il feroce generale Friedrich-Wilhelm Müller, un criminale di guerra, ma il trasferimento di quest’ultimo rischiò di vanificare mesi di lavoro e allora si decise di procedere lo stesso con un’azione puramente dimostrativa, che ebbe però una vasta risonanza e fornì un’ulteriore prova dell’ormai inarrestabile disfacimento della macchina bellica tedesca.
Anni fa ho avuto modo di vedere il film tratto dallo stesso, Colpo di mano a Creta, interpretato da Dirk Bogarde e da David Oxley, pellicola che mi era piaciuta, e quindi è stato naturale voler verificare la corrispondenza fra il testo scritto e il lungometraggio ricavato dallo stesso. Mi hanno soddisfatto entrambi, anche se il film è secondo me più riuscito, non ha quella lentezza che ho trovato nel libro e che smorza non poco lo stato di tensione che deve avere per forza accompagnato i rapitori nel loro viaggio verso la salvezza.
Comunque Brutti incontri al chiaro di luna resta un’opera sicuramente interessante e meritevole di lettura.
Oblio e perdono - Robert Harris
Dalla penna dell’autore di Fatherland, un bellissimo romanzo distopico da cui è stato tratto l’omonimo film di grande successo mirabilmente interpretato da Rutger Hauer, è uscito questo libro che mi ha letteralmente avvinto dalla prima all’ultima pagina. Corre l’anno 1660 e in Inghilterra ritorna la monarchia dopo gli undici anni della repubblica di Oliver Cromwell, repubblica nata con la condanna a morte eseguita per decapitazione di Re Carlo I Stuart, a cui ora è subentrato il figlio Carlo II che vuole un taglio netto con il passato, perseguitando i ribelli e dando in particolare la caccia a quelli che hanno sottoscritto la sentenza grazie alla quale il padre è stato giustiziato. E’ così che vengono rintracciati quasi tutti i firmatari, che vengono poi condannati a morte, ma c’è chi riesce a fuggire, in particolare Edward Whalley e suo genero William Goffe. Non si nascondono in Inghilterra, ma riescono a salpare per l’America e ad arrivare là nelle nuove colonie. Sulle loro tracce il governo mette Richard Nayler, un autentico mastino, grato per l’incarico anche perché in tal modo conta di concretizzare una vendetta personale. I due uomini, seguaci del puritanesimo, per quanto aiutati dai confratelli, conducono una vita errabonda, fatta di paure e senza prospettive. Non vado oltre, perché se dovessi raccontare tutto farei un dispetto a chi intende leggere il romanzo e poi anche perché, per quanto dovessi cercare di essere succinto, finirei comunque per essere eccessivamente prolisso, circostanza certamente non idonea per una piacevole lettura a video.
Preferisco invece soffermarmi sui pregi dell’opera e sull’unico difetto, che lascio per ultimo.
La caccia all’uomo che intraprende Nayler e che durerà una ventina d’anni impone al romanzo un ritmo incalzante, con l’inevitabile desiderio del lettore di sapere le mosse successive; l’atmosfera non manca, anzi è ricreata in modo pregevole, con questi due uomini che sono in fuga senza concrete speranze di cambiare la loro sorte, in una tensione che a tratti sgomenta. Anche l’ambientazione è resa benissimo, con la descrizione del mondo dei puritani, della vita nelle nuove colonie, con i contatti non sempre pacifici con i nativi.
Pur senza dilungarsi nella descrizione della fisionomia dei protagonisti (i due uomini in fuga e il loro cacciatore) l’autore riesce a ricreare l’aspetto di questi uomini, che varia mano a mano che passano gli anni, in un susseguirsi di eventi di cui progressivamente diventiamo partecipi.
La vicenda è veramente riuscita (Harris, in una nota iniziale, premette che è la libera ricostruzione di una storia vera, cioè la ricerca dei regicidi e in particolare di Edward Whalley e William Goffe, personaggi esistiti veramente e oggetto della caccia di Richard Nayler, protagonista che invece è del tutto inventato; i fatti, le date e i luoghi sono poi quelli in cui si è svolta questa caccia implacabile). Insomma, siamo in presenza di un romanzo storico basato su fatti realmente accaduti e forse anche per questo è in grado di avvincere così tanto. La conclusione poi non è per nulla scontata ed è la classica ciliegina sulla torta.
E l’unico difetto? L’unico difetto è che arrivati a pagina 444, l’ultima del libro, la lettura purtroppo termina, nonostante la disponibilità a conoscere eventuali ulteriori sviluppi.
Da leggere.
Il tribunale del Duce - Mimmo Franzinelli
Il Tribunale speciale del fascismo, fortemente voluto, oltre che dal duce, anche dall’Ovra, l’organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo, entrò in funzione il primo di febbraio del 1927 e continuò a operare fino al 25 luglio del 1943. Superati, non senza patemi d’animo, gli effetti nefasti del delitto Matteotti, il regime vide la necessità di stroncare qualsiasi velleità di oppositori ormai clandestini per ottenere, se non il pieno consenso del popolo italiano, almeno la possibilità di dominare senza il benché minimo ostacolo e la nuova istituzione giuridica, alla cui guida erano chiamati fascisti di comprovata fede, andava bene allo scopo, contribuendo ad alimentare un’atmosfera di sospetti e di terrore tipica di tutti i totalitarismi ed indispensabile per potersi reggere. Nel solo primo decennio giudicò ben 10.693 imputati, assolvendone tuttavia 7.581 e irrogando pene, compresa quella di morte, per la differenza (76 furono le condanne a morte, di cui 58 eseguite). Non si creda tuttavia che questo tribunale avesse piena autonomia decisionale, perché in effetti in non pochi casi concertò con il duce condanne e relative pene.
Restavano tuttavia in mano al collegio giudicante ampi poteri, quasi sempre sfruttati a vantaggio personale, il che accentua il senso di disgusto che prende il lettore nel leggere questo interessantissimo saggio di Mimmo Franzinelli. La circostanza che tuttavia più sgomenta è che, a liberazione avvenuta, con il decreto di amnistia di Palmiro Togliatti i componenti del Tribunale speciale non solo non ebbero a patire conseguenze penali, ma furono reintegrati nella magistratura ordinaria, mentre i loro condannati continuarono a essere trattati come sovversivi. Si spiega così l’immaturità di un popolo incapace di fare i conti con il proprio passato e così pronto a ricadere nei medesimi errori. Il saggio di Franzinelli è ben strutturato e aiuta non poco a comprendere come era questo tribunale e come ebbe a funzionare. Di capitolo in capitolo ( Una giustizia speciale, I tre presidenti, Magistrati in camicia nera, I processi per gli attentati a Mussolini, Plotone d’esecuzione, Gli irriducibili, Delitti d’opinione, Segreti e retroscena, Donne alla sbarra, Il Tribunale in guerra e Soppressione ed eredità del Tribunale speciale) si ha un quadro completo del famigerato Tribunale speciale e di certo non basato su illazioni, ma supportato da prove documentali come sempre espressamente citate in appendice.
Quel che stupisce però nel libro è che alla completezza della disamina e delle notizie si accompagna una narrazione organica e chiara, tale da rendere la lettura veramente gradevole, elemento non frequente nel caso di saggi storici e che impreziosisce notevolmente l’opera.