La catena completa in modo impeccabile la trilogia con cui Emilio Lussu dapprima ha parlato con Un anno sull'altipiano della Grande Guerra, conflitto dal forte impulso nazionalistico e quindi, in un certo senso, propedeutico del fascismo, quindi dell'avvento dello stesso con Marcia su Roma e dintorni e infine del consolidamento della dittatura proprio con l'opera di cui mi accingo a scrivere.
In ogni caso si tratta sempre di esperienze dirette, di vita vissuta, ma mentre il romanzo che si svolge sull'altopiano di Asiago e che è senz'altro uno dei libri di più forte impatto nel denunciare l'insensatezza e l'inutilità della guerra lascia più spazio alla creatività, i due successivi finiscono con il diventare la disamina storica di un periodo che si concluderà, dopo tanti lutti e tragedie, nel 1945.
Mussolini, raggiunto il potere, avverte la necessità di consolidarlo, diventando il padrone assoluto e, come in tutti i regimi totalitari, instaurando il principio secondo il quale o si è con il dittatore, o si è un nemico, da isolare, da rendere inoffensivo tanto da annientarlo. E' di questa fase che parla Emilo Lussu con La catena e che va dall'assalto alla casa dello scrittore di un centinaio di fascisti, a cui lui cercherà di opporsi uccidendone uno, al successivo processo, all'assoluzione combattuta e grazie a giudici onesti, ai provvedimenti del Tribunale Speciale grazie ai quali fu confinato a Lipari, da cui, insieme a Carlo Rosselli e Francesco Nitti riuscì a riparare in Francia con una rocambolesca fuga, che ebbe grande rilievo internazionale e che fu uno smacco per il regime.
Le azioni poste in essere da Mussolini per consolidare la sua posizione, come per esempio alcuni attentati alla sua persona armati dalla sua stessa mano, le nuove leggi che di fatto impedivano qualsiasi opposizione, il funzionamento dei Tribunali Speciali, la difficile esistenza dei confinati, dei loro familiari e dei loro amici danno vita a un quadro talmente orrendo che è lecito chiedersi come oggi ci sia ancora gente che crede nella bontà del fascismo (come del resto, in contrapposizione, ci sono quelli che ancora sognano un ritorno al comunismo staliniano). Il tutto è raccontato in modo notevolmente efficace, perché si è trattato di esperienza diretta e l'atmosfera fosca, cupa che aleggia in quelle pagine e che può intimorire oltre misura il lettore è saggiamente stemperata da una sempre presente ironia, anche se amara.
Senza retorica, senza esaltazione dei propri meriti, Lussu ci ha lasciato una testimonianza indispensabile per comprendere tante cose, anche per capire come per circa un ventennio una intera nazionale, fra partecipazione e più spesso indifferenza, si sia lasciata abbindolare da un uomo che voleva essere il padrone del mondo , ma che era senza qualità e che dal trono su cui si era issato finì appeso per i piedi alle strutture di un distributore di benzina a Milano.
Da leggere, quindi, e magari da inserire nei programmi scolastici.
Sul tema avevo già letto 9 agosto 378 Il giorno dei barbari, un interessante saggio di Alessandro Barbero, e sono stato pertanto curioso, più del solito, di leggere il romanzo storico uscito dalla fertile penna di Guido Cervo. Come immaginavo, il narratore bergamasco si è attenuto fedelmente ai fatti, inserendo opportunamente personaggi e vicende di fantasia, sempre plausibili con un’abilità che gli deve essere riconosciuta.
I Goti, pressati dagli Unni, che non sottomettevano, ma uccidevano, chiesero aiuto ai Romani, in particolare domandarono di entrare nel territorio dell’impero e che fossero loro assegnate delle terre da coltivare, promettendo in cambio di servire militarmente sotto di loro. L’imperatore Valente dimostrò il suo interesse, onde ottenere truppe indispensabili per liberarsi una volta per tutte del pericolo persiano, consentendo ai Goti di varcare il Danubio per entrare così nel territorio romano; finì però con il non rispettare i patti, in particolare anche per la corruzione dei suoi dignitari che rubarono gran parte delle provviste destinate agli immigrati, a cui inoltre riservarono terreni pressoché incoltivabili. Ne derivarono reciproche diffidenze che si concretizzarono ben presto in scontri armati a cui Valente credette di porre rimedio provvedendo a una tregua con i persiani e convincendo Graziano imperatore d’occidente a soccorrerlo con una grande armata. Il destino dei Goti, accampati nei pressi di Adranopoli, sembrava segnato, ma quando si combatte per la propria sopravvivenza si aguzza l’ingegno ed è quel che fece il loro capo Fritigerno, ricorrendo a un’alleanza con gli Ostrogoti e gli Alani, che contribuì ad aumentare considerevolmente gli effettivi delle truppe. Valente, peraltro, era talmente sicuro della vittoria che non attese l’armata di Graziano, anche per dimostrare la sua superiorità, e decise di dare battaglia; in verità ci furono più tentativi per evitare lo scontro, uno addirittura anche sul campo, ma con gli uomini di entrambe le parti a fronteggiarsi per delle ore non era da escludere un incidente, il che avvenne per colpa dei romani, che così diedero inizio alla lotta. I Goti che, contrariamente ai calcoli sbagliati effettuati dagli esploratori imperiali, si rivelarono notevolmente superiori di numero, ben condotti da Fritigerno ebbero ben presto campo vinto. Infatti la battaglia si concluse con un’autentica disfatta dei romani, che fra le moltissime perdite registrarono anche quelle di alcuni generali e dello stesso imperatore Valente.
Da quel 9 agosto del 378 iniziò la caduta inarrestabile del più grande impero della storia, con l’esito infausto di una battaglia che non era altro che la conseguenza di un insieme di problemi che emergevano ogni giorno e ai quali non si voleva, ma anche non si poteva, dare soluzione.
Nel contesto della narrazione di Cervo, intorno al fil rouge storicamente del tutto attendibile, si innestano altre vicende minori che, oltre a dare corposità all’opera, mostrano indirettamente come il grande impero, apparentemente monolitico, avesse i piedi ormai di argilla; si tratta con ogni probabilità di pagine in cui prevale la creatività, ma hanno un peso non trascurabile e costituiscono motivo di ulteriore interesse.
Del resto non si possono che apprezzare lo stile snello, la felice caratterizzazione dei protagonisti, l’ambientazione precisa e la descrizione delle scene di guerra, contrassegnate da una notevole dinamicità, e infine, non meno importante, l’autentica pietà dell’autore per i suoi personaggi meno fortunati.
Le mura di Adrianopoli è un romanzo di notevole bellezza.
Il vicequestore Vanina Guarrasi riceve una telefonata da Don Rosario Limoli, un sacerdote impegnato, anima e corpo, a recuperare ragazzi tossicodipendenti o facenti parte di certi giri criminali. Sconvolto le comunica l’uccisione di Thomas Ruscica, uno dei suoi carusi, forse il migliore, perché oltre a essere redento era diventato lui stesso un volontario impegnato in analoga attività. Da lì nasce questo romanzo giallo di Cristina Cassar Scalia, oftalmologa sempre più operante nell’ambito della letteratura poliziesca e dato che in pratica si tratta di episodi di una stessa serie si ritrovano sempre i medesimi personaggi: appunto il vicequestore Vanina Guarrasi, donna d’azione, la sua squadra, con tutti i componenti ben delineati, il simpatico ex commissario Patané, da diverso tempo in pensione, ma sempre pronto a fornire il suo intuito, la vicina e padrona di casa Bettina, che, quando fa da mangiare, sembra che prepari il rancio, peraltro eccellente, per un reggimento e tanti altri, che non sto a nominare, ma che sono ricorrenti. Le indagini si presentano complesse e anche confuse, e in questo di suo mette non poco Cristina Cassar Scalia, ma alla fine, fra sospetti, levatacce e anche mangiate pantagrueliche, si arriva alla soluzione, purtroppo poco logica, circostanza non infrequente nella produzione di questa narratrice siciliana. Il suo problema è che si lascia prendere la mano, raccontando di amorazzi vari, di pranzi luculliani, seminando qua e là un numero di indizi eccessivo, così che alla fine salta fuori il colpevole che, se logicamente è in apparenza il meno sospettabile, però è anche vero che appare solo nelle ultime pagine. Certo la narrazione può anche essere utile per costituire un gradevole passatempo per chi legge che, però, finisce con il restare francamente deluso.
Considerato che non è il primo di questa narratrice con questa caratteristica di certo non positiva penso proprio di non leggerne altri.
È strano il destino di Michele Sparacino, nato alla mezzanotte tra il 3 e il 4 gennaio del 1898, da famiglia poverissima, con un padre ubriacone e sempliciotto che ha già un bel problema all'anagrafe nel denunciarne la nascita. Sarà il 3 o il 4 gennaio? Risolve il tutto l'impiegato, provocando, però, involontariamente, tutta una serie di conseguenze che non toccano la famiglia del pargolo, ma che si manifestano in sommosse e tumulti, eventi eclatanti che attirano l'attenzione di un giornalista che per farsi bello inventa il Masaniello di turno, attribuendogli per un caso del tutto fortuito il nome di Michele Sparacino. Da allora il vero Michele Sparacino proverà sulla propria pelle cosa voglia dire essere scambiato per un facinoroso, tanto che a militare verrà considerato prima un disfattista, poi connivente con il nemico (siamo nel corso della Grande Guerra) e infine, poiché scompare durante la ritirata di Caporetto, anche un disertore. Il destino però gli ha riservato una sorpresa, lui che in effetti, al di là della nomea immeritata, è sempre stato uno sconosciuto, diventerà ignoto in assoluto, con onori e gloria, quali spettano a chi riposa nell'Altare della Patria.
Si tratta solo di un racconto, ma le finalità di Camilleri non sono tanto quelle di imbastire una storia che si legge con molto piacere, ma vanno ben oltre. In fondo avrebbe potuto intitolarlo le tre vite di Michele Sparacino, ma in tal caso sarebbe venuto meno al suo intento, poiché in effetti la vita di Michele Sparacino è una sola, mentre sono altre e più quelle che gli uomini gli attribuiscono scambiandolo per altra persona e questo nel solco tracciato da un altro grande siciliano, Luigi Pirandello. E tutto questo per un'invenzione giornalistica, il che dimostra come la stampa possa condizionare esistenze, a cui si aggiunge, inevitabile, la visione che ognuno di noi ha di un altro. Così, se Michele Sparacino è stato visto come un capitano di popolo, poi come un soldato con i più gravi difetti per un militare (e che non aveva), cioè disfattista, connivente con il nemico, disertore, anche da morto il suo corpo ha un'altra vita.
Era facile cadere in contraddizioni, perdere il filo del discorso, rendere inverosimile la vicenda, ma Camilleri ha saputo procedere con sicurezza, non disdegnando anche di darci un'immagine dell'autentico Michele Sparacino: un po' ingenuo e un po' furbo, schiacciato tuttavia da chi comanda, un ritratto che si potrebbe estendere tranquillamente alla quasi totalità di noi italiani.
Quindi di carne al fuoco ne ha messo tanta, sia pure in poche pagine, e da abile scrittore quale è non l'ha mai bruciata, anzi ha saputo confezionare un racconto di eccellente qualità e che è indubbiamente meritevole di essere letto.
Questa raccolta di racconti conclude il grande progetto a cui Bassani ha dato il nome Il romanzo di Ferrara, ma se era lecito attendersi un’opera addirittura migliore delle precedenti, questa costituisce purtroppo una delusione. Nel leggere queste prose si ha l’impressione di trovarsi davanti al lavoro di un autore che nei libri precedenti ha detto tutto quello che si sentiva di dire; carenza di idee, racconti che, mi spiace dirlo, spesso sono banali e che pertanto, in quanto tali, destano ben poco interesse, insomma un qualcosa che sembra raffazzonato e che magari offre anche qualche pagina piacevole, ma che per lo più finisce con l’annoiare. La creatività sembra spenta, perfino l’italiano, non consueto e non corrente, apprezzato in precedenza, qui langue, dando chiara l’impressione di un’evidente forzatura, come se Bassani avesse dovuto scrivere per contratto e non per il piacere di comunicare. Benchè gli argomenti trattati siano diversi, per tutti vale un dimesso grigiore che trascina lentamente e con fatica il lettore fino all’ultima pagina. A onor del vero ci sarebbe un racconto (Pelandra) il cui spunto é notevole, ma che poi si trascina inerte come un semplice fatto di cronaca, per quanto la trama sia tale da meritare una trasposizione ben diversa, magari con un sottile filo di ironia che non è però nelle corde dell’autore e che invece avrebbe potuto risultare assai migliore in ben altre mani, tanto per intenderci quelle di Piero Chiara. Che poi il libro termini con una sorta di appendice (Gli anni delle storie) in cui l’autore cerca di spiegare come abbia potuto scrivere i romanzi e i racconti di Il romanzo di Ferrara non è motivo di particolare attrazione; chi si attendesse chissà quali rivelazioni rimarrebbe francamente deluso, insomma, per dirla in breve, ho finalmente trovato un’opera di questo autore, da me particolarmente stimato, ben poco riuscita, ben al di sotto del livello a lui consueto. Nondimeno le posso attribuire, più che un valore letterario, un valore storico, come completamento di una produzione che ha sempre avuto al centro l’amata città di Ferrara e che può essere considerata una, se pur incompleta, autobiografia.
Ed é per tale motivo che non ne sconsiglio la lettura.
La giovinezza non è sempre primavera di bellezza, anzi può essere un periodo di profonda tristezza interiore, di solitudine riveniente da una inconsapevole auto esclusione. Ed è di quegli anni, anni di studio al liceo, che parla questo delicatissimo romanzo di Giorgio Bassani. É il ricordo che guida la mano del narratore, che descrive con sapienza un microcosmo in cui tutti per un po’ ci siamo trovati, quello scolastico. Il periodo storico va dall’ottobre del 1929 al giugno del 1930, ma ho rilevato che quel mondo di aule, di compagni di classe, di insegnanti era assai simile a quello che ho vissuto io, solo che a dividerci c’era stata una sanguinosa guerra e una lunga ricostruzione; per il resto, gli atteggiamenti dei professori, le piccole gare per riuscire a essere il più bravo, le invidie, le ripicche sono le stesse dei miei anni ‘60 e occorrerà arrivare al famoso ‘68 perché vi sia un radicale e irreversibile cambiamento. Per l’autore è un periodo di sfide tacite, della ricerca di un compagno con cui condividere gli studi e la scelta cade su quello che, senza essere un somaro, non è nemmeno una cima, una sorta di gregario che non potrà mai diventare un pericoloso concorrente nella gara per diventare il più bravo della classe. Inizia così un rapporto in cui la continua frequentazione fa scivolare verso un’intimità sempre più accentuata, che sfiora anche la sfera sessuale nel difficile periodo del passaggio dallo stato infantile, o quasi, a quello adulto. L’io narrante è timido e tende sempre di più a chiudersi a riccio, come a proteggere quell’innocenza dell’infanzia in cui gli piace crogiolarsi. Ma c’è chi matura prima e il nuovo compagno ne è un esempio, e così l’autore apprenderà dolorosamente quanto il presunto amico sfotta quel suo essere ancora non adulto. É allora che diventerà uomo, ma la lacerazione interiore, una sofferenza sorda e muta, lo accompagneranno per tutta vita. La perdita dell’innocenza é la perdita di un mondo che gli pareva eterno e che invece si è squarciato nell’amara realtà delle miserie umane; ciò lo isolerà ulteriormente, impedendogli di aprire quella porta che lo conduca alla consapevolezza di essere parte di una realtà che inconsciamente rifiuta.
Dietro la porta é un autentico gioiello, soffuso, tenue e forte al tempo stesso, frutto di un ricordo che è un grido disperato.
Da leggere, senz’altro.
L'essere perseguitati in base a una legge perché si è nati ebrei e l'essere emarginati solo perché si è nati omosessuali sono i percorsi quasi paralleli di cui tratta questo romanzo breve di Giorgio Bassani, parte integrante di quel grande progetto letterario che molto opportunamente chiamò Il romanzo di Ferrara.
La vicenda del dottor Fadigati, conosciuto e stimato medico otorinolaringoiatra, con avviato studio in città, può essere solo un pretesto per delineare l'esistenza di chi, per natura o per legge, è definito un diverso, ma è anche emblematica di un falso puritanesimo che al giorno d'oggi farebbe sorridere, ma che negli anni 30', in cui in Italia predominava tanto da sembrare eterno il fascismo, era più che mai radicato. Stimato si è detto questo clinico, almeno fino a quando, pubblicamente, non rivela la propria sessualità, perché allora, all'impietosa luce del sole, si insinua nei cittadini dapprima un senso di scherno e di ilarità e poi una vera e propria emarginazione che si traduce in un calo marcato della clientela dello studio medico, in un isolamento in cui l'interessato avverte colpe che non ha. Non è un caso, poi, che pur non approvando il suo comportamento, l'autore e la sua famiglia non lo evitano, già in procinto di essere considerati pure loro diversi in quanto ebrei. Sintomatico di questo atteggiamento, se non di consenso, almeno di comprensione, è quel puvraz che pronuncia il padre dell'autore, apprendendo, raggiunta la famiglia a Riccione per le vacanze, che quella persona che così tanto stima – e che continuerà a stimare – ha manifestato pubblicamente, con grande scandalo, le sue tendenze accompagnandosi al Grand Hotel con un giovane studente sfaccendato, amico del Bassani. L'amante non è altri che un gigolò, senza alcuna morale, che va con le donne, ma che non disdegna gli uomini quando questa compagnia sia ben fruttifera. Gli spasimi di Fedigati, le sue gelosie, il lento scendere nel baratro sono descritti in modo splendido e con una penna guidata da un grande senso di pietà; sono pagine in cui l'autore riesce a cogliere il tormento dell'esistenza che può avere solo un innamorato tradito e un uomo che avverte palpabilmente un progressivo isolamento, da cui non potrà uscire se non con un gesto estremo, con un suicidio che i giornali di regime faranno passare per incidente. La vicenda si svolge mentre già la stampa comincia ad attaccare gli ebrei, tanto da parlare di imminenti leggi razziali, che di lì a poco in effetti verranno promulgate. L'ansia di questi israeliti, che memori di antiche persecuzioni sono sempre attenti a cogliere sintomi avversi, è ben esposta e procede di pari passo con le chiacchiere e gli atteggiamenti dei ferraresi nei confronti del dottor Fadigati.
Due diversità, dunque, ed entrambe incolpevoli, un senso di graduale afflizione che pervade gli animi, che rende insicuri, un'inconscia sensazione di colpevolezza quando invece colpevoli non si è, incidono le pagine come rasoi, descrivono in un italiano colto e ricercato il passaggio dai timori alla disperazione, condannano senza se e senza ma l'atroce delitto dell'emarginazione, un altro crimine di cui si macchierà il fascismo, incapace di fornire agli italiani un ideale diverso da quello che gli fu proprio, cioè la violenza per la violenza, la discordia civile, il senso dell'inutilità di una vita non libera di essere vissuta.
Non ho altro da aggiungere, salvo che questa piacevolissimo libro, che appaga in tutto e per tutto, lascia alla fine un senso di disorientamento, quasi di incredulità, come se certi fatti – e non dico quelli del romanzo – non possano essere accaduti, quando invece sappiamo che altri ben più gravi avvennero, come l'Olocausto conferma.
Scritti negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale (tranne uno, il primo della serie, abbozzato nel 1937 ed edito nel 1940) questi cinque racconti ("Lidia Mantovani", "La passeggiata prima di cena", "Una lapide in via Mazzini", "Gli ultimi anni di Clelia Trotti" e "Una notte del '43") furono pubblicati, riuniti in un unico volume, dalla Einaudi nel 1956, ottenendo un immediato successo di critica e di pubblico, coronato nello stesso anno dal conferimento del prestigioso Premio Strega.
Tutte le prose sono accomunate dall'ambientazione (la città di Ferrara) e dalla malinconica consapevolezza che gli italiani amano troppo presto dimenticare, aderendo, spesso inconsciamente, al noto motto chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Tuttavia, il filo conduttore è costituito dalla opprimente cappa della dittatura fascista in dissoluzione, che vive, negli ultimi anni del conflitto, un rigurgito di violenza, tragica e inutile, come se le teste calde volessero portare con sì nella tomba anche gli altri, cioè quelli non come loro. Da questo punto di vista l'opera presenta l'indiscutibile pregio di farci capire, attraverso delle storie semplici e realmente accadute, come poté capitare che un regime, apparentemente dissolto dopo il 25 luglio del 1943, finisse con il rialzare la testa, dando vita a quello stato fantoccio che fu la Repubblica di Salò. Bassani lo fa parlando della sua Ferrara, terra di grandi squadristi, tra i quali Italo Balbo, e in cui la guerra civile prese avvio con l'eccidio di undici innocenti avvenuta nel novembre del 1943, che l'autore sposta a dicembre.
Ferrara è una città di provincia, a economia agricola, una sorta di grosso paese che l'autore ben conosce e descrive perfettamente, nelle sue strade e nei suoi personaggi, ma che riflette, per estensione, l'intera Italia, così che leggendo quelle pagine si comprendono tante cose, si capisce perché a guerra finita i processi ai criminali fascisti si siano quasi sempre conclusi in una farsa, così che dopo aver sollevato un gran polverone questo sia ritornato ad adagiarsi dove era prima, insomma un po' il concetto del Gattopardo, alla cui pubblicazione l'intervento di Bassani fu determinante.
L'impressione che ho ricavato è che forse ò'autore, con questi suoi racconti, ha inteso dire che la natura del fascismo è innata in noi italiani, menefreghisti, prepotenti, pronti a scendere a qualsiasi compromesso, a cambiar casacca, ma restando sempre noi stessi. L'esperienza degli ultimi settanta anni parrebbe purtroppo dar ragione al narratore ferrarese, confermando ancora una volta che la storia è fatta di corsi e ricorsi e che, contrariamente a quel che si dice, non insegna nulla, o meglio che da essa non impariamo, o non vogliamo imparare nulla.
Da leggere, perché lo merita.
L'opera fa parte di un grande impianto romanzesco a cui Giorgio Bassani lavorò per circa quarant'anni e che comprende anche “Dentro le mura”, “Dietro la porta”, “L'airone”, “Gli occhiali d'oro” e “L'odore del fieno”, testi non strettamente connessi, ma che presentano una comune simbologia poetica e un'ambientazione che costituisce anche una metodologia di osservazione degli eventi storici, con una Ferrara quasi mitizzata, dalle ampie e silenziose strade, con una vena di esile malinconia che riflette tuttavia il piacere di un vivere in un mondo quasi a sé, fra nebbie perlacee che tutto celano e che lasciano scoprire all'improvviso case, mura, alberi, affinché lo stupore della visione si accompagni alla quiete silente di una provincia quasi fuori dal tempo.
Questa atmosfera è descritta benissimo ne Il giardino dei Finzi Contini, un romanzo che sorge e cresce sul filo del ricordo. Raramente mi è accaduto di immergermi inconsapevolmente in un ambiente, di sentirmi parte della narrazione, come se dietro l'io narrante ci fossero tutti i nostri sentimenti, i nostri sogni di una vita quieta, lontana da ogni clamore, come se gli eventi del mondo fossero lontani anni luce.
E se nel prologo ci sono le immagini di una necropoli etrusca, che portano a una riflessione sulla morte, non atroce, ma malinconica, come un evento ineluttabile che chiude la vita, pure il romanzo inizia con la descrizione del cimitero ebraico di Ferrara, quasi a prendere atto che tutto ha un termine, fugando così il naturale timore della dipartita.
Anche nella tragedia della famiglia dei Finzi Contini, distrutta nei campi di sterminio, non c'è traccia di orrore, non c'è ansia atroce, ma solo il mesto ricordo di un amore giovanile perduto per sempre.
In questo senso è assai emblematico il personaggio di Micol Finzi Contini, la fanciulla di cui l'io narrante è perdutamente innamorato senza che tuttavia lo dimostri apertamente, perché le decisioni, nel mondo ovattato e sospeso del giardino dei Finzi Contini, non devono esserci. Sarebbe, infatti, un ritornare sulla terra, affrontando una realtà che spesso non è piacevole.
Quanti giardini ci sono nel nostro animo, quanti rifugi irreali in cui nei momenti di difficoltà ci piace adagiarci per fuggire il quotidiano!
Ecco, l'invito a leggere questo romanzo, di una delicatezza e di un pudore incredibili, è d'obbligo, perché alla fine, quando il protagonista rinuncia a Micol, sarà per tutti chiaro che il sogno non è un comodo rifugio e che la realtà, tutto sommato, è l'unica prova della nostra esistenza, pur con il suo carico di dolori, ma anche di brevi gioie.
L'airone è il quinto romanzo del progetto letterario Il romanzo di Ferrara ed è stato premiato nel 1969 con il Campiello. Bassani anche in quest'opera tratta il problema dell'emarginazione, particolarmente avvertita in un autore che, in quanto ebreo, ha subito le persecuzioni razziali. In lui il concetto di emarginazione è più marcato, perché in effetti si tratta di esclusione dalla società, non di una messa in disparte, ma di un ostracismo pernicioso che in un essere umano, portato per sua natura alla convivenza con i suoi simili, finisce con il provocare l'avversione per una vita che non ha più senso. Anche in questa storia, che si svolge in un giorno freddo e nebbioso dell'inverno del 1947, in una zona d'acque della Bassa, sul Po di Volano, il protagonista, Edgardo Limentani, proprietario terriero ed ebreo, nel corso di una battuta di caccia prende coscienza del fatto che il mondo in cui vive non è più il suo. Il pericolo dei rossi, che intendono trattare con i padroni da pari a pari, quell'atmosfera di sudditanza dei contadini che esisteva prima della guerra e che ora non solo non c'è più, ma che è sostituita da toni baldanzosi, l'amore scemato per la moglie, l'affievolimento di quello verso la figlioletta, la sua origine razziale per cui ritiene di essere discriminato perfino da chi, ex ebreo, si è convertito al cristianesimo, lo fanno sentire un escluso, gli fanno invano rimpiangere la vita che in passato conduceva. Avverte sempre più crescente un sordo dolore per un'esistenza che per lui non ha più senso e cerca disperatamente una soluzione che troverà osservando in una vetrina un airone imbalsamato. Non aggiungo altro, perché è giusto che lo scopra il lettore.
Il romanzo presenta, oltre alla trama, pregi indiscutibili, come la capacità di ricreare l'atmosfera ovattata della Bassa nella nebbia e la corrosiva presa di coscienza dell'autore, in un ritmo lento che amplia i tempi di un giorno e che invita a soffermarsi sui singoli periodi, sempre funzionali alla vicenda. Lo stile è quello tipico di Bassani, mai impetuoso, quasi pudico, ma sempre incisivo, in un italiano che oggi può apparire a tratti desueto, ma che è quanto di meglio un narratore possa esprimere.
Sarà che questo dolore di vivere finisce con il rendere partecipe piano piano il lettore, sarà forse perché dilatare il tempo di un giorno a un'intera vita rallenta un po' troppo il ritmo, sta di fatto però che, pur apprezzando l'opera, la ritengo inferiore al romanzo di Bassani che, almeno, fino a ora, mi è piaciuto di più: Gli occhiali d'oro. Certamente è una questione di gusto, perché il gradimento c'è stato, tanto che mi sento di consigliarne vivamente la lettura.
Questo è un libro sulla memoria, ma non quella dell'autore, poiché per età e assenza di motivi di contatto non avrebbe potuto esserci.
E' un libro in cui il ricordo deriva da oggetti, immagini che suscitano l'interesse di chi osserva e che lo inducono a cercare cosa vi sia dietro di essi, chi siano i personaggi delle fotografie, in che occasione le stesse siano state scattate, perché questa famiglia di israeliti può rappresentare un importante ritratto storico di un'epoca passata, in un susseguirsi di eventi ricostruiti con certosine ricerche, quasi un'opera archeologica.
Non è pero solo questo, che pure è già molto. E' anche il ricordo di una tragedia maturata nel corso della seconda guerra mondiale. L'autore, al riguardo, si deve essere posto le due domande che seguono e che le cui risposte fanno di questo libro un vero e proprio caso letterario.
Si può scrivere del dramma dell'Olocausto narrando la vita di una famiglia che lo ha subito? Certamente sì. E' possibile descrivere la genesi di questa tragedia seguendo la storia familiare di alcune vittime? Indubbiamente, ed è quello che ha fatto Filippo Tuena con Le variazioni Reinach, un libro singolare, una commistione di romanzo storico, di saggio, di esperienza autobiografica, da cui emerge la caducità degli uomini, la dolorosa sensazione che nulla sia dovuto al caso, ma che negli imperscrutabili fogli del destino ci sia già scritta tutta la vicenda, fatti, eventi a cui sembra impossibile opporsi.
E' così quasi casualmente che l'autore approda al Musée Nissim de Camondo a Parigi, dove dimorarono Leon Reinach e Béatrice de Comondo, e che si appassiona alla storia di queste famiglie, di spicco negli anni che vanno dalla fine del XIX secolo all'occupazione nazista.
Non è che Filippo Tuena scriva in prima persona, anzi è sempre in terza persona che si esprime la voce narrante, quasi a voler evitare un coinvolgimento indiretto che potrebbe togliere quel senso di progressivo disfacimento che poco a poco permea il testo.
Ma chi è Leon Reinach?
E' uno dei membri di una nobile e ricca famiglia ebrea che, sposando Béatrice de Camondo, altra agiata ereditiera, ha concretizzato due fortune alle quali sembra indifferente, avvertendo in sé invece la passione per la musica, quella classica, forse anche componendo, anzi di sicuro una composizione c'è stata, queste variazioni di cui Tuena, nella continua ricerca di documentazione, ha trovato lo spartito in un'università americana, un brano forse di non eccelso livello, ma che rappresenta il messaggio di un uomo segnato dal passaggio del tempo, da quell'involuzione che accompagna la storia di una famiglia. Ho avuto il piacere di ascoltare questa composizione, poiché l'autore mi ha fatto avere la copia di un'esecuzione; senza addentrarmi in aspetti tecnici, in cui Tuena è senz'altro più competente di me, ho avvertito in quelle note, apparentemente capricciose, una malinconia profonda, come un urlo soffocato di un animo che in quel mondo che cambia non si ritrova più e che presagisce una tragedia.
Per certi versi questo libro mi pare possa costituire un antesignano di Ultimo parallelo, un autentico capolavoro costruito sulla base di esperienze che hanno provveduto a limare, a migliorare tutte quelle caratteristiche di novità introdotte proprio con Le variazioni Reinach.
Come tutti gli esperimenti presenta ovviamente elementi riusciti ed altri meno convincenti, ma ciò non toglie che questo libro, senza raggiungere l'elevato livello di Ultimo parallelo, sia un'opera di eccellenza, scandita con un ritmo volutamente lento e anche distaccato, una narrazione che è frutto di una continua scoperta.
Pur se la vicenda non è in grado di offrire il pathos della drammatica spedizione di Scott al Polo Sud, ha tuttavia il pregio di acquisire l'attenzione con misurata lentezza, facendo rivivere un'epoca, fra annotazioni del presente e ritorni al passato, con accenti tipicamente proustiani.
Le variazioni Reinach è un libro da leggere, da meditare, perché più non ci siano olocausti, perché con i tempi che corrono e in cui il passato rischia di essere oscurato, se non travisato, la memoria sia sempre presente a ricordare che Leon Reinach era un uomo come noi, ma fu travolto dalla follia di altri uomini, una follia che richiama la bestialità sempre presente e che quindi potrebbe di nuovo tornare a emergere.
In conclusione è un testo che conferma le qualità di Filippo Tuena, capace di analizzare personaggi, di comprendere e di assimilare le loro esistenze, trasferendo il tutto su carta per il piacere dei lettori che, in ogni caso, avranno la certezza di un arricchimento del proprio livello culturale.
Occorrono capacità e coraggio per scrivere un libro simile. Per la prima mi dilungherò più avanti, per il secondo invece preferisco parlarne subito.
Premetto che, nella mia ignoranza, non avevo mai letto nulla di questo autore e se ho provveduto in parte a riparare questa negligenza lo devo soprattutto a Gian Paolo Serino, il cui articolo in proposito apparso su Satisfiction mi ha convinto della necessità di acquistare e leggere questo romanzo, ma non perché ha vinto il premio Viareggio, bensì per l'entusiastico consiglio di lettura del critico milanese, di cui condivido spesso i giudizi.
Ho parlato prima di coraggio e in effetti ne occorre per proporre una storia, vera, di esplorazione, genere stranamente non tenuto in considerazione dai lettori italiani; inoltre è un'opera di elevato livello culturale che cozza contro il generale appiattimento dell'attuale narrativa italiana, portata, nel migliore dei casi, a una lettura d'evasione adatta a un pubblico da tempo abituato a fiction e a reality che, di certo, non costringono a spremere le meningi.
Di ciò l'autore è ben consapevole perché altrimenti non avrebbe usato un linguaggio erudito, non avrebbe approfondito certi aspetti della vicenda, indifferente quindi alla ricerca di un eventuale successo commerciale.
Filippo Tuena ha inteso scrivere un prodotto culturalmente molto valido, ben sapendo che ciò da diverso tempo è negletto e il risultato è stato un'opera che senza ombra di dubbio può essere definita un capolavoro, alla stregua di quelle dei grandi classici.
La vicenda trattata è abbastanza conosciuta ed è la tragica spedizione del 1911, condotta dal britannico Robert Falcon Scott nell'Antartide, per la conquista del Polo Sud.
Però, non solo non se ne era scritto mai in modo così dettagliato ed esauriente, ma addirittura nessuno aveva pensato di ricavarne un romanzo.
Che cos'è il Polo Sud, se non un punto ideale sulla calotta di ghiaccio che ricopre un continente dell'emisfero australe?
Battuto da venti impetuosi, gelido, completamente deserto è una terra del tutto inospitale, ma per molti anni ha rappresentato una meta agognata, il desiderio intenso e ossessivo di tanti intrepidi esploratori.
Raggiungere il polo non era solo una sfida fra uomini e una natura inclemente, ma era molto di più, era la ricerca di se stessi, un tentativo di conoscere il proprio io misurandosi con forze impari.
Sappiamo dalla storia che il primo a raggiungere il Polo Sud fu il grande esploratore norvegese Roald Amundsen, ma, benché il suo nome appaia in questo libro, non ci è mai dato di vederlo, anzi l'autore lo circonda di un alone da divinità vichinga, sì che ci pare di vedere la sua slitta, trainata dai cani, correre sul ghiaccio veloce come un fulmine e dritta alla meta.
Lui è il vincitore, è l'uomo che ha sconfitto la natura, ma lo scopo di Filippo Tuena non è di parlare di eroi trionfanti, ma di ipotetici eroi ritornati nei ranghi della debolezza umana di fronte a fatti e a circostanze che, nonostante l'insuccesso, hanno destinato i lori nomi all'eternità.
Ecco, allora, perchè in questo libro si narra solo della infausta spedizione inglese guidata da Robert Falcon Scott, il cui esito è a tutti noto, ma che nelle parole dello scrittore assurge a dimensioni titaniche, a una sorta di sacrificio umano, quasi il destino degli uomini che perdono la sfida con gli dei.
E' stata una lettura sofferta, perché Tuena ha la rara capacità di coinvolgere chi si sofferma sulle sue parole, e così mi sono immerso in immense distese ghiacciate, ho visto uomini stremati che a braccia trainavano le slitte, ho avvertito il gelo entrarmi nelle ossa, mi sono amareggiato con la delusione di essere arrivato al polo non per primo, ho sofferto pene intense lungo la via di un ritorno che non ci sarà, mi sono rinchiuso in una fragile tenda convinto di essere senza futuro, mi sono accorto della presenza ossessiva, giorno dopo giorno, di un uomo in più.
E questa sensazione dell'uomo in più, che in effetti hanno provato diversi esploratori nei momenti in cui la fatica sembrava insormontabile, tale da esaurire ogni energia residua, ed espressa in una sorta di visione incerta di un altro incappucciato e avvolto in un mantello bruno, è stata abilmente sfruttata da Tuena.
Infatti, Scott non parla in prima persona, e nemmeno l'autore, ma a rendere estremamente coinvolgente il testo ci pensa l'uomo in più e così è attraverso i suoi occhi che seguiamo l'intera vicenda.
Al riguardo apro un'ideale parentesi, perché mi sono posto il problema di chi fosse mai questo essere che si crede di vedere, avvertendone la presenza.
Inizialmente ho pensato alla morte, ma, per quanto non improbabile, non mi convinceva questa soluzione e allora ho interpellato l'autore, al fine di confrontarmi e di avere un'interpretazione autentica.
In merito, di seguito riporto le precisazioni dell'autore:
“ Non pensavo necessariamente alla morte, piuttosto a una divinità antartica che si desta con la presenza degli esploratori e si spegne con la loro partenza. Credo che non esistano divinità dove non vivono uomini che le possono vivificare. Più precisamente, riguardo al libro, lo spirito che accompagna gli esploratori, è di volta in volta lo scrittore che ne scrive e il lettore che ne legge perché che cosa siamo noi, quando scriviamo e leggiamo, se non coloro che accompagnano silenziosamente i personaggi di un libro nel loro andare?”.
Ecco, quindi, un ulteriore elemento che dimostra l'intenzionalità dell'autore di coinvolgere attivamente il lettore e posso dire che ci riesce benissimo.
Chiudo l'ideale parentesi e ritorno alla trama.
Demoralizzati per non essere arrivati primi, esausti, sfibrati da mesi di marcia, Scott e i suoi quattro compagni prendono la via per l'eternità, un calvario senza testimoni, ma in parte ritrovato in due diari e in una macchina fotografica, una sorta di epitaffio mancante solo dell'evento finale, di quel trapasso, per stenti e freddo, ormai quasi desiderato come la soluzione migliore per chi ha fallito e sta soffrendo le pene dell'inferno.
Se nella fase preparatoria della spedizione e nell'avvicinamento alla meta la mano felice di Tuena non solo ha evitato di annoiare il lettore, ma anzi lo ha progressivamente reso partecipe, è proprio nel dramma finale che lo stile, la misurata pacatezza coinvolgono oltre ogni misura, in un lento, crescente, angoscioso stillicidio di eventi, di riflessioni, di tormenti interiori.
Non scrivo altro, perché Ultimo parallelo, come tutti i capolavori, ha bisogno di essere meditato, assimilato a gradi, con il trascorrere del tempo, per scoprire ogni volta qualche nuova traccia preziosa.
La Città, ormai Città Vecchia, per alcuni problemi deve essere spostata in una località vicina e il trasloco, corre l´anno 1699, avviene con gradualità; è già fatto tutto, ma rimangono da traslocare i morti del cimitero. Per motivi pratici, e anche igienici, si decide di metterli nella cripta della vecchia cattedrale, l´unico edificio che resterà in piedi a testimonianza del passato. Incaricato del servizio è Ruggero Derigo che però, per lucrare sull´incarico, vi adempie solo in parte; della circostanza si accorge il cugino Luigi Derigo, che è il vero protagonista della storia e che fissa un appuntamento nei pressi appunto dell´antico edificio religioso per avere una spiegazione. I due si incontrano, Luigi è da solo e ha la netta sensazione di essere caduto in una trappola, perché Ruggero è accompagnato da alcuni "bravi". Infatti Luigi viene pugnalato, bastonato e il suo corpo è gettato nella cripta, già piena dei morti del cimitero. Ruggero ha architettato questo in quanto unico erede di Luigi, proprietario di una redditizia salina. Il delitto sembra andato a buon fine, ma Luigi, creduto morto, non lo è. Non vado oltre, perché la storia, che non è un horror, ma un noir, merita di essere scoperta dal lettore e dico subito che è una bella storia.
Al di là della trama, molto ben congegnata, l´interesse del romanzo sta nella dimostrazione di come in noi conviva sempre un lato oscuro, che può emergere in determinate circostanze, ma che in ogni caso si deve cercare di non far prevalere, affinché sia quella luce che portiamo dentro che possa sempre trionfare. Nella vicenda di Luigi, che sopravvive grazie all´aiuto di una vecchietta considerata da tutti una strega, il desiderio di vendetta, più che mai motivato, assume i contorni di una vittoria, sia pur temporanea, della bestia che è in noi e di cui fanno le spese anche degli innocenti. Ma poi, per fortuna, la ragione ha il sopravvento ed è come se l´individuo rinascesse a nuova vita; la tematica non è nuova e in essa si sono cimentati, anche in epoche passate, molti narratori, ma in Faccia di sale l´ambientazione, la trama e l´atmosfera sono resi al meglio, così che il mostro che è in noi emerge quasi con naturalezza, senza essere il frutto di torbide sperimentazioni come nel caso dello strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson.
Per quanto ovvio, la lettura è raccomandata.
Non è stato il piazzamento da finalista al Premio Calvino che mi ha indotto a leggere questo libro, bensì l´ultima di copertina che parla di una donna dalla eccezionale forza d´animo nella città di Napoli durante la guerra. Quindi la presenza di un personaggio altamente positivo nel dramma della seconda guerra mondiale ha costituito per me l´incentivo per acquisire questo romanzo. Purtroppo, già dall´inizio della lettura mi sono imbattuto in un particolare che mi ha mal predisposto, vale a dire i dialoghi dei personaggi nel dialetto napoletano che ogni tanto usa anche la voce narrante. Qualcosa sono riuscito a capire, per altre sono andato a senso, per non poche frasi mi sono arreso. Mi chiedo che logica ci possa essere nel fatto che un narratore italiano non scriva nella nostra lingua, ma in un dialetto locale, anche se abbastanza conosciuto. Per un appassionato di letteratura come me arrivare all´ultima pagina è stata una fatica non indifferente e pur tuttavia sono riuscito a comprendere le intenzioni di Marinella Savino, e cioè narrare una saga familiare in capo a un personaggio notevolmente positivo nello scenario, prima incombente, poi presente, di un conflitto sanguinoso. Nello scopo c´era tanto materiale da trattare, si presentavano tante opportunità per non dico scrivere un romanzo del livello di La Storia, di Elsa Morante, ma comunque un´opera che parlasse della tragedia della guerra non in modo convenzionale. E invece a Marinella Savino sfugge la misura nel descrivere i drammi che finiscono per coinvolgere ben poco chi legge. I bombardamenti così diventano la materia prima per affermare la generosità della protagonista e di suo marito, encomiabile indubbiamente, ma senza che si possa arrivare a comprendere l´evidente dilemma dei due fra il desiderio di aiutare e la paura di sobbarcarsi così un onere eccessivo. Ci troviamo di fronte al classico caso che non ci sono vie di mezzo, come invece nella realtà, o buoni solo, oppure solamente cattivi, per quanto questi ultimi siano sullo sfondo rappresentati impersonalmente dai gerarchi fascisti e dalle truppe tedesche di occupazione.
Concludo quindi rilevando che alle buone intenzioni poi non sono corrisposti i fatti per concretizzarle, ma sarebbe stato, secondo me, comunque un romanzo accettabile se non presentasse il già evidenziato difetto della difficile leggibilità per il ricorso continuo al dialetto, purtroppo non sempre comprensibile. E´ questo senza dubbio l´elemento negativo più evidente e che svilisce marcatamente l´opera.
Ho letto ormai pressoché tutto della non trascurabile produzione di Guido Cervo, autore di romanzi ambientati in epoche diverse, opere di cui sempre ho potuto apprezzare la fondatezza storica e l´assenza di eccessi nella creatività, sia per quanto concerne i personaggi realmente vissuti, sia per quanto riguarda quelli frutto esclusivamente di fantasia. In questo libro, Il segno di Attila, si occupa della guerra fra unni e romani, in piena decadenza dell´impero che ha già subito parecchie invasioni barbariche e che addirittura nel 455 ha patito il sacco di Roma da parte dei vandali di Genserico, allorché la città non era più da tempo capitale dell´impero, essendo divenuta tale nel 402 Ravenna, dove Onorio trasferì la sua corte per le maggiori capacità di difesa offerte dal nuovo insediamento. In effetti, l´occidente romano sembrava diventato facile terreno di conquista, consentendo a barbari provenienti dal Nord e dall´Est di erodere piano piano i territori che erano stati parte dell´impero. Una minaccia particolarmente pericolosa veniva dagli Unni, il cui re Attila si era messo in testa di occupare la Gallia, desideroso di impalmare Onoria, sorella dell´imperatore Valentiniano III, in ciò spronato da un desiderio espresso dalla stessa di essere liberata dall´ambiente oppressivo di corte. Attila di certo equivocò, perché a Onoria non era mai passata per la mente l´idea di unirsi in matrimonio con il potente re degli Unni. Agli inizi della guerra i feroci Unni dilagarono in Gallia, ma poi si trovarono di fronte il magister militum Flavio Ezio, che riuscì ad avere come alleati i visigoti e altre tribù germaniche. Lo scontro avvenne il 20 giugno del 451 ai campi Catalaunici e la vittoria arrise ai romani, ma Flavio Ezio evitò di ottenere un risultato schiacciante, nel timore che l´annientamento degli Unni potesse di fatto rafforzare notevolmente i Visigoti. Fu un errore gravissimo, perché l´anno dopo Attila rivolse le sue mire sull´Italia.
Come al solito, grazie al suo stile, mai ampolloso, conciso, senza essere eccessivamente breve, Cervo ha confezionato un romanzo che si legge con vero piacere, un puro e appagante svago che mi ha tenuto compagnia nelle ore torride di un´estate più tropicale che italiana. Quel che stupisce nel romanzo è la capacità di coinvolgimento del lettore, che si sente attratto, oltre che dalla trama, dalla personalità dei protagonisti, veramente indovinati, e per non farci mancare niente Cervo è riuscito anche a inserire una passione amorosa, che è ulteriore motivo di conflitto fra l´unno Balamber e il romano Sebastiano.
Per quanto ovvio Il segno di Attila è più che meritevole di lettura.
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La catena - Emilio Lussu
La catena completa in modo impeccabile la trilogia con cui Emilio Lussu dapprima ha parlato con Un anno sull'altipiano della Grande Guerra, conflitto dal forte impulso nazionalistico e quindi, in un certo senso, propedeutico del fascismo, quindi dell'avvento dello stesso con Marcia su Roma e dintorni e infine del consolidamento della dittatura proprio con l'opera di cui mi accingo a scrivere.
In ogni caso si tratta sempre di esperienze dirette, di vita vissuta, ma mentre il romanzo che si svolge sull'altopiano di Asiago e che è senz'altro uno dei libri di più forte impatto nel denunciare l'insensatezza e l'inutilità della guerra lascia più spazio alla creatività, i due successivi finiscono con il diventare la disamina storica di un periodo che si concluderà, dopo tanti lutti e tragedie, nel 1945.
Mussolini, raggiunto il potere, avverte la necessità di consolidarlo, diventando il padrone assoluto e, come in tutti i regimi totalitari, instaurando il principio secondo il quale o si è con il dittatore, o si è un nemico, da isolare, da rendere inoffensivo tanto da annientarlo. E' di questa fase che parla Emilo Lussu con La catena e che va dall'assalto alla casa dello scrittore di un centinaio di fascisti, a cui lui cercherà di opporsi uccidendone uno, al successivo processo, all'assoluzione combattuta e grazie a giudici onesti, ai provvedimenti del Tribunale Speciale grazie ai quali fu confinato a Lipari, da cui, insieme a Carlo Rosselli e Francesco Nitti riuscì a riparare in Francia con una rocambolesca fuga, che ebbe grande rilievo internazionale e che fu uno smacco per il regime.
Le azioni poste in essere da Mussolini per consolidare la sua posizione, come per esempio alcuni attentati alla sua persona armati dalla sua stessa mano, le nuove leggi che di fatto impedivano qualsiasi opposizione, il funzionamento dei Tribunali Speciali, la difficile esistenza dei confinati, dei loro familiari e dei loro amici danno vita a un quadro talmente orrendo che è lecito chiedersi come oggi ci sia ancora gente che crede nella bontà del fascismo (come del resto, in contrapposizione, ci sono quelli che ancora sognano un ritorno al comunismo staliniano). Il tutto è raccontato in modo notevolmente efficace, perché si è trattato di esperienza diretta e l'atmosfera fosca, cupa che aleggia in quelle pagine e che può intimorire oltre misura il lettore è saggiamente stemperata da una sempre presente ironia, anche se amara.
Senza retorica, senza esaltazione dei propri meriti, Lussu ci ha lasciato una testimonianza indispensabile per comprendere tante cose, anche per capire come per circa un ventennio una intera nazionale, fra partecipazione e più spesso indifferenza, si sia lasciata abbindolare da un uomo che voleva essere il padrone del mondo , ma che era senza qualità e che dal trono su cui si era issato finì appeso per i piedi alle strutture di un distributore di benzina a Milano.
Da leggere, quindi, e magari da inserire nei programmi scolastici.
Le mura di Adrianopoli - Guido Cervo
Sul tema avevo già letto 9 agosto 378 Il giorno dei barbari, un interessante saggio di Alessandro Barbero, e sono stato pertanto curioso, più del solito, di leggere il romanzo storico uscito dalla fertile penna di Guido Cervo. Come immaginavo, il narratore bergamasco si è attenuto fedelmente ai fatti, inserendo opportunamente personaggi e vicende di fantasia, sempre plausibili con un’abilità che gli deve essere riconosciuta.
I Goti, pressati dagli Unni, che non sottomettevano, ma uccidevano, chiesero aiuto ai Romani, in particolare domandarono di entrare nel territorio dell’impero e che fossero loro assegnate delle terre da coltivare, promettendo in cambio di servire militarmente sotto di loro. L’imperatore Valente dimostrò il suo interesse, onde ottenere truppe indispensabili per liberarsi una volta per tutte del pericolo persiano, consentendo ai Goti di varcare il Danubio per entrare così nel territorio romano; finì però con il non rispettare i patti, in particolare anche per la corruzione dei suoi dignitari che rubarono gran parte delle provviste destinate agli immigrati, a cui inoltre riservarono terreni pressoché incoltivabili. Ne derivarono reciproche diffidenze che si concretizzarono ben presto in scontri armati a cui Valente credette di porre rimedio provvedendo a una tregua con i persiani e convincendo Graziano imperatore d’occidente a soccorrerlo con una grande armata. Il destino dei Goti, accampati nei pressi di Adranopoli, sembrava segnato, ma quando si combatte per la propria sopravvivenza si aguzza l’ingegno ed è quel che fece il loro capo Fritigerno, ricorrendo a un’alleanza con gli Ostrogoti e gli Alani, che contribuì ad aumentare considerevolmente gli effettivi delle truppe. Valente, peraltro, era talmente sicuro della vittoria che non attese l’armata di Graziano, anche per dimostrare la sua superiorità, e decise di dare battaglia; in verità ci furono più tentativi per evitare lo scontro, uno addirittura anche sul campo, ma con gli uomini di entrambe le parti a fronteggiarsi per delle ore non era da escludere un incidente, il che avvenne per colpa dei romani, che così diedero inizio alla lotta. I Goti che, contrariamente ai calcoli sbagliati effettuati dagli esploratori imperiali, si rivelarono notevolmente superiori di numero, ben condotti da Fritigerno ebbero ben presto campo vinto. Infatti la battaglia si concluse con un’autentica disfatta dei romani, che fra le moltissime perdite registrarono anche quelle di alcuni generali e dello stesso imperatore Valente.
Da quel 9 agosto del 378 iniziò la caduta inarrestabile del più grande impero della storia, con l’esito infausto di una battaglia che non era altro che la conseguenza di un insieme di problemi che emergevano ogni giorno e ai quali non si voleva, ma anche non si poteva, dare soluzione.
Nel contesto della narrazione di Cervo, intorno al fil rouge storicamente del tutto attendibile, si innestano altre vicende minori che, oltre a dare corposità all’opera, mostrano indirettamente come il grande impero, apparentemente monolitico, avesse i piedi ormai di argilla; si tratta con ogni probabilità di pagine in cui prevale la creatività, ma hanno un peso non trascurabile e costituiscono motivo di ulteriore interesse.
Del resto non si possono che apprezzare lo stile snello, la felice caratterizzazione dei protagonisti, l’ambientazione precisa e la descrizione delle scene di guerra, contrassegnate da una notevole dinamicità, e infine, non meno importante, l’autentica pietà dell’autore per i suoi personaggi meno fortunati.
Le mura di Adrianopoli è un romanzo di notevole bellezza.
La banda dei carusi - Cristina Cassar Scalia
Il vicequestore Vanina Guarrasi riceve una telefonata da Don Rosario Limoli, un sacerdote impegnato, anima e corpo, a recuperare ragazzi tossicodipendenti o facenti parte di certi giri criminali. Sconvolto le comunica l’uccisione di Thomas Ruscica, uno dei suoi carusi, forse il migliore, perché oltre a essere redento era diventato lui stesso un volontario impegnato in analoga attività. Da lì nasce questo romanzo giallo di Cristina Cassar Scalia, oftalmologa sempre più operante nell’ambito della letteratura poliziesca e dato che in pratica si tratta di episodi di una stessa serie si ritrovano sempre i medesimi personaggi: appunto il vicequestore Vanina Guarrasi, donna d’azione, la sua squadra, con tutti i componenti ben delineati, il simpatico ex commissario Patané, da diverso tempo in pensione, ma sempre pronto a fornire il suo intuito, la vicina e padrona di casa Bettina, che, quando fa da mangiare, sembra che prepari il rancio, peraltro eccellente, per un reggimento e tanti altri, che non sto a nominare, ma che sono ricorrenti. Le indagini si presentano complesse e anche confuse, e in questo di suo mette non poco Cristina Cassar Scalia, ma alla fine, fra sospetti, levatacce e anche mangiate pantagrueliche, si arriva alla soluzione, purtroppo poco logica, circostanza non infrequente nella produzione di questa narratrice siciliana. Il suo problema è che si lascia prendere la mano, raccontando di amorazzi vari, di pranzi luculliani, seminando qua e là un numero di indizi eccessivo, così che alla fine salta fuori il colpevole che, se logicamente è in apparenza il meno sospettabile, però è anche vero che appare solo nelle ultime pagine. Certo la narrazione può anche essere utile per costituire un gradevole passatempo per chi legge che, però, finisce con il restare francamente deluso.
Considerato che non è il primo di questa narratrice con questa caratteristica di certo non positiva penso proprio di non leggerne altri.
La tripla vita di Michele Sparacino - Andrea Camilleri
È strano il destino di Michele Sparacino, nato alla mezzanotte tra il 3 e il 4 gennaio del 1898, da famiglia poverissima, con un padre ubriacone e sempliciotto che ha già un bel problema all'anagrafe nel denunciarne la nascita. Sarà il 3 o il 4 gennaio? Risolve il tutto l'impiegato, provocando, però, involontariamente, tutta una serie di conseguenze che non toccano la famiglia del pargolo, ma che si manifestano in sommosse e tumulti, eventi eclatanti che attirano l'attenzione di un giornalista che per farsi bello inventa il Masaniello di turno, attribuendogli per un caso del tutto fortuito il nome di Michele Sparacino. Da allora il vero Michele Sparacino proverà sulla propria pelle cosa voglia dire essere scambiato per un facinoroso, tanto che a militare verrà considerato prima un disfattista, poi connivente con il nemico (siamo nel corso della Grande Guerra) e infine, poiché scompare durante la ritirata di Caporetto, anche un disertore. Il destino però gli ha riservato una sorpresa, lui che in effetti, al di là della nomea immeritata, è sempre stato uno sconosciuto, diventerà ignoto in assoluto, con onori e gloria, quali spettano a chi riposa nell'Altare della Patria.
Si tratta solo di un racconto, ma le finalità di Camilleri non sono tanto quelle di imbastire una storia che si legge con molto piacere, ma vanno ben oltre. In fondo avrebbe potuto intitolarlo le tre vite di Michele Sparacino, ma in tal caso sarebbe venuto meno al suo intento, poiché in effetti la vita di Michele Sparacino è una sola, mentre sono altre e più quelle che gli uomini gli attribuiscono scambiandolo per altra persona e questo nel solco tracciato da un altro grande siciliano, Luigi Pirandello. E tutto questo per un'invenzione giornalistica, il che dimostra come la stampa possa condizionare esistenze, a cui si aggiunge, inevitabile, la visione che ognuno di noi ha di un altro. Così, se Michele Sparacino è stato visto come un capitano di popolo, poi come un soldato con i più gravi difetti per un militare (e che non aveva), cioè disfattista, connivente con il nemico, disertore, anche da morto il suo corpo ha un'altra vita.
Era facile cadere in contraddizioni, perdere il filo del discorso, rendere inverosimile la vicenda, ma Camilleri ha saputo procedere con sicurezza, non disdegnando anche di darci un'immagine dell'autentico Michele Sparacino: un po' ingenuo e un po' furbo, schiacciato tuttavia da chi comanda, un ritratto che si potrebbe estendere tranquillamente alla quasi totalità di noi italiani.
Quindi di carne al fuoco ne ha messo tanta, sia pure in poche pagine, e da abile scrittore quale è non l'ha mai bruciata, anzi ha saputo confezionare un racconto di eccellente qualità e che è indubbiamente meritevole di essere letto.
L'odore del fieno - Giorgio Bassani
Questa raccolta di racconti conclude il grande progetto a cui Bassani ha dato il nome Il romanzo di Ferrara, ma se era lecito attendersi un’opera addirittura migliore delle precedenti, questa costituisce purtroppo una delusione. Nel leggere queste prose si ha l’impressione di trovarsi davanti al lavoro di un autore che nei libri precedenti ha detto tutto quello che si sentiva di dire; carenza di idee, racconti che, mi spiace dirlo, spesso sono banali e che pertanto, in quanto tali, destano ben poco interesse, insomma un qualcosa che sembra raffazzonato e che magari offre anche qualche pagina piacevole, ma che per lo più finisce con l’annoiare. La creatività sembra spenta, perfino l’italiano, non consueto e non corrente, apprezzato in precedenza, qui langue, dando chiara l’impressione di un’evidente forzatura, come se Bassani avesse dovuto scrivere per contratto e non per il piacere di comunicare. Benchè gli argomenti trattati siano diversi, per tutti vale un dimesso grigiore che trascina lentamente e con fatica il lettore fino all’ultima pagina. A onor del vero ci sarebbe un racconto (Pelandra) il cui spunto é notevole, ma che poi si trascina inerte come un semplice fatto di cronaca, per quanto la trama sia tale da meritare una trasposizione ben diversa, magari con un sottile filo di ironia che non è però nelle corde dell’autore e che invece avrebbe potuto risultare assai migliore in ben altre mani, tanto per intenderci quelle di Piero Chiara. Che poi il libro termini con una sorta di appendice (Gli anni delle storie) in cui l’autore cerca di spiegare come abbia potuto scrivere i romanzi e i racconti di Il romanzo di Ferrara non è motivo di particolare attrazione; chi si attendesse chissà quali rivelazioni rimarrebbe francamente deluso, insomma, per dirla in breve, ho finalmente trovato un’opera di questo autore, da me particolarmente stimato, ben poco riuscita, ben al di sotto del livello a lui consueto. Nondimeno le posso attribuire, più che un valore letterario, un valore storico, come completamento di una produzione che ha sempre avuto al centro l’amata città di Ferrara e che può essere considerata una, se pur incompleta, autobiografia.
Ed é per tale motivo che non ne sconsiglio la lettura.
Dietro la porta - Giorgio Bassani
La giovinezza non è sempre primavera di bellezza, anzi può essere un periodo di profonda tristezza interiore, di solitudine riveniente da una inconsapevole auto esclusione. Ed è di quegli anni, anni di studio al liceo, che parla questo delicatissimo romanzo di Giorgio Bassani. É il ricordo che guida la mano del narratore, che descrive con sapienza un microcosmo in cui tutti per un po’ ci siamo trovati, quello scolastico. Il periodo storico va dall’ottobre del 1929 al giugno del 1930, ma ho rilevato che quel mondo di aule, di compagni di classe, di insegnanti era assai simile a quello che ho vissuto io, solo che a dividerci c’era stata una sanguinosa guerra e una lunga ricostruzione; per il resto, gli atteggiamenti dei professori, le piccole gare per riuscire a essere il più bravo, le invidie, le ripicche sono le stesse dei miei anni ‘60 e occorrerà arrivare al famoso ‘68 perché vi sia un radicale e irreversibile cambiamento. Per l’autore è un periodo di sfide tacite, della ricerca di un compagno con cui condividere gli studi e la scelta cade su quello che, senza essere un somaro, non è nemmeno una cima, una sorta di gregario che non potrà mai diventare un pericoloso concorrente nella gara per diventare il più bravo della classe. Inizia così un rapporto in cui la continua frequentazione fa scivolare verso un’intimità sempre più accentuata, che sfiora anche la sfera sessuale nel difficile periodo del passaggio dallo stato infantile, o quasi, a quello adulto. L’io narrante è timido e tende sempre di più a chiudersi a riccio, come a proteggere quell’innocenza dell’infanzia in cui gli piace crogiolarsi. Ma c’è chi matura prima e il nuovo compagno ne è un esempio, e così l’autore apprenderà dolorosamente quanto il presunto amico sfotta quel suo essere ancora non adulto. É allora che diventerà uomo, ma la lacerazione interiore, una sofferenza sorda e muta, lo accompagneranno per tutta vita. La perdita dell’innocenza é la perdita di un mondo che gli pareva eterno e che invece si è squarciato nell’amara realtà delle miserie umane; ciò lo isolerà ulteriormente, impedendogli di aprire quella porta che lo conduca alla consapevolezza di essere parte di una realtà che inconsciamente rifiuta.
Dietro la porta é un autentico gioiello, soffuso, tenue e forte al tempo stesso, frutto di un ricordo che è un grido disperato.
Da leggere, senz’altro.
Gli occhiali d'oro - Giorgio Bassani
L'essere perseguitati in base a una legge perché si è nati ebrei e l'essere emarginati solo perché si è nati omosessuali sono i percorsi quasi paralleli di cui tratta questo romanzo breve di Giorgio Bassani, parte integrante di quel grande progetto letterario che molto opportunamente chiamò Il romanzo di Ferrara.
La vicenda del dottor Fadigati, conosciuto e stimato medico otorinolaringoiatra, con avviato studio in città, può essere solo un pretesto per delineare l'esistenza di chi, per natura o per legge, è definito un diverso, ma è anche emblematica di un falso puritanesimo che al giorno d'oggi farebbe sorridere, ma che negli anni 30', in cui in Italia predominava tanto da sembrare eterno il fascismo, era più che mai radicato. Stimato si è detto questo clinico, almeno fino a quando, pubblicamente, non rivela la propria sessualità, perché allora, all'impietosa luce del sole, si insinua nei cittadini dapprima un senso di scherno e di ilarità e poi una vera e propria emarginazione che si traduce in un calo marcato della clientela dello studio medico, in un isolamento in cui l'interessato avverte colpe che non ha. Non è un caso, poi, che pur non approvando il suo comportamento, l'autore e la sua famiglia non lo evitano, già in procinto di essere considerati pure loro diversi in quanto ebrei. Sintomatico di questo atteggiamento, se non di consenso, almeno di comprensione, è quel puvraz che pronuncia il padre dell'autore, apprendendo, raggiunta la famiglia a Riccione per le vacanze, che quella persona che così tanto stima – e che continuerà a stimare – ha manifestato pubblicamente, con grande scandalo, le sue tendenze accompagnandosi al Grand Hotel con un giovane studente sfaccendato, amico del Bassani. L'amante non è altri che un gigolò, senza alcuna morale, che va con le donne, ma che non disdegna gli uomini quando questa compagnia sia ben fruttifera. Gli spasimi di Fedigati, le sue gelosie, il lento scendere nel baratro sono descritti in modo splendido e con una penna guidata da un grande senso di pietà; sono pagine in cui l'autore riesce a cogliere il tormento dell'esistenza che può avere solo un innamorato tradito e un uomo che avverte palpabilmente un progressivo isolamento, da cui non potrà uscire se non con un gesto estremo, con un suicidio che i giornali di regime faranno passare per incidente. La vicenda si svolge mentre già la stampa comincia ad attaccare gli ebrei, tanto da parlare di imminenti leggi razziali, che di lì a poco in effetti verranno promulgate. L'ansia di questi israeliti, che memori di antiche persecuzioni sono sempre attenti a cogliere sintomi avversi, è ben esposta e procede di pari passo con le chiacchiere e gli atteggiamenti dei ferraresi nei confronti del dottor Fadigati.
Due diversità, dunque, ed entrambe incolpevoli, un senso di graduale afflizione che pervade gli animi, che rende insicuri, un'inconscia sensazione di colpevolezza quando invece colpevoli non si è, incidono le pagine come rasoi, descrivono in un italiano colto e ricercato il passaggio dai timori alla disperazione, condannano senza se e senza ma l'atroce delitto dell'emarginazione, un altro crimine di cui si macchierà il fascismo, incapace di fornire agli italiani un ideale diverso da quello che gli fu proprio, cioè la violenza per la violenza, la discordia civile, il senso dell'inutilità di una vita non libera di essere vissuta.
Non ho altro da aggiungere, salvo che questa piacevolissimo libro, che appaga in tutto e per tutto, lascia alla fine un senso di disorientamento, quasi di incredulità, come se certi fatti – e non dico quelli del romanzo – non possano essere accaduti, quando invece sappiamo che altri ben più gravi avvennero, come l'Olocausto conferma.
vol. 1: Dentro le mura - Giorgio Bassani
Scritti negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale (tranne uno, il primo della serie, abbozzato nel 1937 ed edito nel 1940) questi cinque racconti ("Lidia Mantovani", "La passeggiata prima di cena", "Una lapide in via Mazzini", "Gli ultimi anni di Clelia Trotti" e "Una notte del '43") furono pubblicati, riuniti in un unico volume, dalla Einaudi nel 1956, ottenendo un immediato successo di critica e di pubblico, coronato nello stesso anno dal conferimento del prestigioso Premio Strega.
Tutte le prose sono accomunate dall'ambientazione (la città di Ferrara) e dalla malinconica consapevolezza che gli italiani amano troppo presto dimenticare, aderendo, spesso inconsciamente, al noto motto chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Tuttavia, il filo conduttore è costituito dalla opprimente cappa della dittatura fascista in dissoluzione, che vive, negli ultimi anni del conflitto, un rigurgito di violenza, tragica e inutile, come se le teste calde volessero portare con sì nella tomba anche gli altri, cioè quelli non come loro. Da questo punto di vista l'opera presenta l'indiscutibile pregio di farci capire, attraverso delle storie semplici e realmente accadute, come poté capitare che un regime, apparentemente dissolto dopo il 25 luglio del 1943, finisse con il rialzare la testa, dando vita a quello stato fantoccio che fu la Repubblica di Salò. Bassani lo fa parlando della sua Ferrara, terra di grandi squadristi, tra i quali Italo Balbo, e in cui la guerra civile prese avvio con l'eccidio di undici innocenti avvenuta nel novembre del 1943, che l'autore sposta a dicembre.
Ferrara è una città di provincia, a economia agricola, una sorta di grosso paese che l'autore ben conosce e descrive perfettamente, nelle sue strade e nei suoi personaggi, ma che riflette, per estensione, l'intera Italia, così che leggendo quelle pagine si comprendono tante cose, si capisce perché a guerra finita i processi ai criminali fascisti si siano quasi sempre conclusi in una farsa, così che dopo aver sollevato un gran polverone questo sia ritornato ad adagiarsi dove era prima, insomma un po' il concetto del Gattopardo, alla cui pubblicazione l'intervento di Bassani fu determinante.
L'impressione che ho ricavato è che forse ò'autore, con questi suoi racconti, ha inteso dire che la natura del fascismo è innata in noi italiani, menefreghisti, prepotenti, pronti a scendere a qualsiasi compromesso, a cambiar casacca, ma restando sempre noi stessi. L'esperienza degli ultimi settanta anni parrebbe purtroppo dar ragione al narratore ferrarese, confermando ancora una volta che la storia è fatta di corsi e ricorsi e che, contrariamente a quel che si dice, non insegna nulla, o meglio che da essa non impariamo, o non vogliamo imparare nulla.
Da leggere, perché lo merita.
Il giardino dei Finzi-Contini - Giorgio Bassani
L'opera fa parte di un grande impianto romanzesco a cui Giorgio Bassani lavorò per circa quarant'anni e che comprende anche “Dentro le mura”, “Dietro la porta”, “L'airone”, “Gli occhiali d'oro” e “L'odore del fieno”, testi non strettamente connessi, ma che presentano una comune simbologia poetica e un'ambientazione che costituisce anche una metodologia di osservazione degli eventi storici, con una Ferrara quasi mitizzata, dalle ampie e silenziose strade, con una vena di esile malinconia che riflette tuttavia il piacere di un vivere in un mondo quasi a sé, fra nebbie perlacee che tutto celano e che lasciano scoprire all'improvviso case, mura, alberi, affinché lo stupore della visione si accompagni alla quiete silente di una provincia quasi fuori dal tempo.
Questa atmosfera è descritta benissimo ne Il giardino dei Finzi Contini, un romanzo che sorge e cresce sul filo del ricordo. Raramente mi è accaduto di immergermi inconsapevolmente in un ambiente, di sentirmi parte della narrazione, come se dietro l'io narrante ci fossero tutti i nostri sentimenti, i nostri sogni di una vita quieta, lontana da ogni clamore, come se gli eventi del mondo fossero lontani anni luce.
E se nel prologo ci sono le immagini di una necropoli etrusca, che portano a una riflessione sulla morte, non atroce, ma malinconica, come un evento ineluttabile che chiude la vita, pure il romanzo inizia con la descrizione del cimitero ebraico di Ferrara, quasi a prendere atto che tutto ha un termine, fugando così il naturale timore della dipartita.
Anche nella tragedia della famiglia dei Finzi Contini, distrutta nei campi di sterminio, non c'è traccia di orrore, non c'è ansia atroce, ma solo il mesto ricordo di un amore giovanile perduto per sempre.
In questo senso è assai emblematico il personaggio di Micol Finzi Contini, la fanciulla di cui l'io narrante è perdutamente innamorato senza che tuttavia lo dimostri apertamente, perché le decisioni, nel mondo ovattato e sospeso del giardino dei Finzi Contini, non devono esserci. Sarebbe, infatti, un ritornare sulla terra, affrontando una realtà che spesso non è piacevole.
Quanti giardini ci sono nel nostro animo, quanti rifugi irreali in cui nei momenti di difficoltà ci piace adagiarci per fuggire il quotidiano!
Ecco, l'invito a leggere questo romanzo, di una delicatezza e di un pudore incredibili, è d'obbligo, perché alla fine, quando il protagonista rinuncia a Micol, sarà per tutti chiaro che il sogno non è un comodo rifugio e che la realtà, tutto sommato, è l'unica prova della nostra esistenza, pur con il suo carico di dolori, ma anche di brevi gioie.
L' airone - Giorgio Bassani
L'airone è il quinto romanzo del progetto letterario Il romanzo di Ferrara ed è stato premiato nel 1969 con il Campiello. Bassani anche in quest'opera tratta il problema dell'emarginazione, particolarmente avvertita in un autore che, in quanto ebreo, ha subito le persecuzioni razziali. In lui il concetto di emarginazione è più marcato, perché in effetti si tratta di esclusione dalla società, non di una messa in disparte, ma di un ostracismo pernicioso che in un essere umano, portato per sua natura alla convivenza con i suoi simili, finisce con il provocare l'avversione per una vita che non ha più senso. Anche in questa storia, che si svolge in un giorno freddo e nebbioso dell'inverno del 1947, in una zona d'acque della Bassa, sul Po di Volano, il protagonista, Edgardo Limentani, proprietario terriero ed ebreo, nel corso di una battuta di caccia prende coscienza del fatto che il mondo in cui vive non è più il suo. Il pericolo dei rossi, che intendono trattare con i padroni da pari a pari, quell'atmosfera di sudditanza dei contadini che esisteva prima della guerra e che ora non solo non c'è più, ma che è sostituita da toni baldanzosi, l'amore scemato per la moglie, l'affievolimento di quello verso la figlioletta, la sua origine razziale per cui ritiene di essere discriminato perfino da chi, ex ebreo, si è convertito al cristianesimo, lo fanno sentire un escluso, gli fanno invano rimpiangere la vita che in passato conduceva. Avverte sempre più crescente un sordo dolore per un'esistenza che per lui non ha più senso e cerca disperatamente una soluzione che troverà osservando in una vetrina un airone imbalsamato. Non aggiungo altro, perché è giusto che lo scopra il lettore.
Il romanzo presenta, oltre alla trama, pregi indiscutibili, come la capacità di ricreare l'atmosfera ovattata della Bassa nella nebbia e la corrosiva presa di coscienza dell'autore, in un ritmo lento che amplia i tempi di un giorno e che invita a soffermarsi sui singoli periodi, sempre funzionali alla vicenda. Lo stile è quello tipico di Bassani, mai impetuoso, quasi pudico, ma sempre incisivo, in un italiano che oggi può apparire a tratti desueto, ma che è quanto di meglio un narratore possa esprimere.
Sarà che questo dolore di vivere finisce con il rendere partecipe piano piano il lettore, sarà forse perché dilatare il tempo di un giorno a un'intera vita rallenta un po' troppo il ritmo, sta di fatto però che, pur apprezzando l'opera, la ritengo inferiore al romanzo di Bassani che, almeno, fino a ora, mi è piaciuto di più: Gli occhiali d'oro. Certamente è una questione di gusto, perché il gradimento c'è stato, tanto che mi sento di consigliarne vivamente la lettura.
Le variazioni Reinach - Filippo Tuena
Questo è un libro sulla memoria, ma non quella dell'autore, poiché per età e assenza di motivi di contatto non avrebbe potuto esserci.
E' un libro in cui il ricordo deriva da oggetti, immagini che suscitano l'interesse di chi osserva e che lo inducono a cercare cosa vi sia dietro di essi, chi siano i personaggi delle fotografie, in che occasione le stesse siano state scattate, perché questa famiglia di israeliti può rappresentare un importante ritratto storico di un'epoca passata, in un susseguirsi di eventi ricostruiti con certosine ricerche, quasi un'opera archeologica.
Non è pero solo questo, che pure è già molto. E' anche il ricordo di una tragedia maturata nel corso della seconda guerra mondiale. L'autore, al riguardo, si deve essere posto le due domande che seguono e che le cui risposte fanno di questo libro un vero e proprio caso letterario.
Si può scrivere del dramma dell'Olocausto narrando la vita di una famiglia che lo ha subito? Certamente sì. E' possibile descrivere la genesi di questa tragedia seguendo la storia familiare di alcune vittime? Indubbiamente, ed è quello che ha fatto Filippo Tuena con Le variazioni Reinach, un libro singolare, una commistione di romanzo storico, di saggio, di esperienza autobiografica, da cui emerge la caducità degli uomini, la dolorosa sensazione che nulla sia dovuto al caso, ma che negli imperscrutabili fogli del destino ci sia già scritta tutta la vicenda, fatti, eventi a cui sembra impossibile opporsi.
E' così quasi casualmente che l'autore approda al Musée Nissim de Camondo a Parigi, dove dimorarono Leon Reinach e Béatrice de Comondo, e che si appassiona alla storia di queste famiglie, di spicco negli anni che vanno dalla fine del XIX secolo all'occupazione nazista.
Non è che Filippo Tuena scriva in prima persona, anzi è sempre in terza persona che si esprime la voce narrante, quasi a voler evitare un coinvolgimento indiretto che potrebbe togliere quel senso di progressivo disfacimento che poco a poco permea il testo.
Ma chi è Leon Reinach?
E' uno dei membri di una nobile e ricca famiglia ebrea che, sposando Béatrice de Camondo, altra agiata ereditiera, ha concretizzato due fortune alle quali sembra indifferente, avvertendo in sé invece la passione per la musica, quella classica, forse anche componendo, anzi di sicuro una composizione c'è stata, queste variazioni di cui Tuena, nella continua ricerca di documentazione, ha trovato lo spartito in un'università americana, un brano forse di non eccelso livello, ma che rappresenta il messaggio di un uomo segnato dal passaggio del tempo, da quell'involuzione che accompagna la storia di una famiglia. Ho avuto il piacere di ascoltare questa composizione, poiché l'autore mi ha fatto avere la copia di un'esecuzione; senza addentrarmi in aspetti tecnici, in cui Tuena è senz'altro più competente di me, ho avvertito in quelle note, apparentemente capricciose, una malinconia profonda, come un urlo soffocato di un animo che in quel mondo che cambia non si ritrova più e che presagisce una tragedia.
Per certi versi questo libro mi pare possa costituire un antesignano di Ultimo parallelo, un autentico capolavoro costruito sulla base di esperienze che hanno provveduto a limare, a migliorare tutte quelle caratteristiche di novità introdotte proprio con Le variazioni Reinach.
Come tutti gli esperimenti presenta ovviamente elementi riusciti ed altri meno convincenti, ma ciò non toglie che questo libro, senza raggiungere l'elevato livello di Ultimo parallelo, sia un'opera di eccellenza, scandita con un ritmo volutamente lento e anche distaccato, una narrazione che è frutto di una continua scoperta.
Pur se la vicenda non è in grado di offrire il pathos della drammatica spedizione di Scott al Polo Sud, ha tuttavia il pregio di acquisire l'attenzione con misurata lentezza, facendo rivivere un'epoca, fra annotazioni del presente e ritorni al passato, con accenti tipicamente proustiani.
Le variazioni Reinach è un libro da leggere, da meditare, perché più non ci siano olocausti, perché con i tempi che corrono e in cui il passato rischia di essere oscurato, se non travisato, la memoria sia sempre presente a ricordare che Leon Reinach era un uomo come noi, ma fu travolto dalla follia di altri uomini, una follia che richiama la bestialità sempre presente e che quindi potrebbe di nuovo tornare a emergere.
In conclusione è un testo che conferma le qualità di Filippo Tuena, capace di analizzare personaggi, di comprendere e di assimilare le loro esistenze, trasferendo il tutto su carta per il piacere dei lettori che, in ogni caso, avranno la certezza di un arricchimento del proprio livello culturale.
Ultimo parallelo - Filippo Tuena
Occorrono capacità e coraggio per scrivere un libro simile. Per la prima mi dilungherò più avanti, per il secondo invece preferisco parlarne subito.
Premetto che, nella mia ignoranza, non avevo mai letto nulla di questo autore e se ho provveduto in parte a riparare questa negligenza lo devo soprattutto a Gian Paolo Serino, il cui articolo in proposito apparso su Satisfiction mi ha convinto della necessità di acquistare e leggere questo romanzo, ma non perché ha vinto il premio Viareggio, bensì per l'entusiastico consiglio di lettura del critico milanese, di cui condivido spesso i giudizi.
Ho parlato prima di coraggio e in effetti ne occorre per proporre una storia, vera, di esplorazione, genere stranamente non tenuto in considerazione dai lettori italiani; inoltre è un'opera di elevato livello culturale che cozza contro il generale appiattimento dell'attuale narrativa italiana, portata, nel migliore dei casi, a una lettura d'evasione adatta a un pubblico da tempo abituato a fiction e a reality che, di certo, non costringono a spremere le meningi.
Di ciò l'autore è ben consapevole perché altrimenti non avrebbe usato un linguaggio erudito, non avrebbe approfondito certi aspetti della vicenda, indifferente quindi alla ricerca di un eventuale successo commerciale.
Filippo Tuena ha inteso scrivere un prodotto culturalmente molto valido, ben sapendo che ciò da diverso tempo è negletto e il risultato è stato un'opera che senza ombra di dubbio può essere definita un capolavoro, alla stregua di quelle dei grandi classici.
La vicenda trattata è abbastanza conosciuta ed è la tragica spedizione del 1911, condotta dal britannico Robert Falcon Scott nell'Antartide, per la conquista del Polo Sud.
Però, non solo non se ne era scritto mai in modo così dettagliato ed esauriente, ma addirittura nessuno aveva pensato di ricavarne un romanzo.
Che cos'è il Polo Sud, se non un punto ideale sulla calotta di ghiaccio che ricopre un continente dell'emisfero australe?
Battuto da venti impetuosi, gelido, completamente deserto è una terra del tutto inospitale, ma per molti anni ha rappresentato una meta agognata, il desiderio intenso e ossessivo di tanti intrepidi esploratori.
Raggiungere il polo non era solo una sfida fra uomini e una natura inclemente, ma era molto di più, era la ricerca di se stessi, un tentativo di conoscere il proprio io misurandosi con forze impari.
Sappiamo dalla storia che il primo a raggiungere il Polo Sud fu il grande esploratore norvegese Roald Amundsen, ma, benché il suo nome appaia in questo libro, non ci è mai dato di vederlo, anzi l'autore lo circonda di un alone da divinità vichinga, sì che ci pare di vedere la sua slitta, trainata dai cani, correre sul ghiaccio veloce come un fulmine e dritta alla meta.
Lui è il vincitore, è l'uomo che ha sconfitto la natura, ma lo scopo di Filippo Tuena non è di parlare di eroi trionfanti, ma di ipotetici eroi ritornati nei ranghi della debolezza umana di fronte a fatti e a circostanze che, nonostante l'insuccesso, hanno destinato i lori nomi all'eternità.
Ecco, allora, perchè in questo libro si narra solo della infausta spedizione inglese guidata da Robert Falcon Scott, il cui esito è a tutti noto, ma che nelle parole dello scrittore assurge a dimensioni titaniche, a una sorta di sacrificio umano, quasi il destino degli uomini che perdono la sfida con gli dei.
E' stata una lettura sofferta, perché Tuena ha la rara capacità di coinvolgere chi si sofferma sulle sue parole, e così mi sono immerso in immense distese ghiacciate, ho visto uomini stremati che a braccia trainavano le slitte, ho avvertito il gelo entrarmi nelle ossa, mi sono amareggiato con la delusione di essere arrivato al polo non per primo, ho sofferto pene intense lungo la via di un ritorno che non ci sarà, mi sono rinchiuso in una fragile tenda convinto di essere senza futuro, mi sono accorto della presenza ossessiva, giorno dopo giorno, di un uomo in più.
E questa sensazione dell'uomo in più, che in effetti hanno provato diversi esploratori nei momenti in cui la fatica sembrava insormontabile, tale da esaurire ogni energia residua, ed espressa in una sorta di visione incerta di un altro incappucciato e avvolto in un mantello bruno, è stata abilmente sfruttata da Tuena.
Infatti, Scott non parla in prima persona, e nemmeno l'autore, ma a rendere estremamente coinvolgente il testo ci pensa l'uomo in più e così è attraverso i suoi occhi che seguiamo l'intera vicenda.
Al riguardo apro un'ideale parentesi, perché mi sono posto il problema di chi fosse mai questo essere che si crede di vedere, avvertendone la presenza.
Inizialmente ho pensato alla morte, ma, per quanto non improbabile, non mi convinceva questa soluzione e allora ho interpellato l'autore, al fine di confrontarmi e di avere un'interpretazione autentica.
In merito, di seguito riporto le precisazioni dell'autore:
“ Non pensavo necessariamente alla morte, piuttosto a una divinità antartica che si desta con la presenza degli esploratori e si spegne con la loro partenza. Credo che non esistano divinità dove non vivono uomini che le possono vivificare. Più precisamente, riguardo al libro, lo spirito che accompagna gli esploratori, è di volta in volta lo scrittore che ne scrive e il lettore che ne legge perché che cosa siamo noi, quando scriviamo e leggiamo, se non coloro che accompagnano silenziosamente i personaggi di un libro nel loro andare?”.
Ecco, quindi, un ulteriore elemento che dimostra l'intenzionalità dell'autore di coinvolgere attivamente il lettore e posso dire che ci riesce benissimo.
Chiudo l'ideale parentesi e ritorno alla trama.
Demoralizzati per non essere arrivati primi, esausti, sfibrati da mesi di marcia, Scott e i suoi quattro compagni prendono la via per l'eternità, un calvario senza testimoni, ma in parte ritrovato in due diari e in una macchina fotografica, una sorta di epitaffio mancante solo dell'evento finale, di quel trapasso, per stenti e freddo, ormai quasi desiderato come la soluzione migliore per chi ha fallito e sta soffrendo le pene dell'inferno.
Se nella fase preparatoria della spedizione e nell'avvicinamento alla meta la mano felice di Tuena non solo ha evitato di annoiare il lettore, ma anzi lo ha progressivamente reso partecipe, è proprio nel dramma finale che lo stile, la misurata pacatezza coinvolgono oltre ogni misura, in un lento, crescente, angoscioso stillicidio di eventi, di riflessioni, di tormenti interiori.
Non scrivo altro, perché Ultimo parallelo, come tutti i capolavori, ha bisogno di essere meditato, assimilato a gradi, con il trascorrere del tempo, per scoprire ogni volta qualche nuova traccia preziosa.
Faccia di sale - Eraldo Baldini
La Città, ormai Città Vecchia, per alcuni problemi deve essere spostata in una località vicina e il trasloco, corre l´anno 1699, avviene con gradualità; è già fatto tutto, ma rimangono da traslocare i morti del cimitero. Per motivi pratici, e anche igienici, si decide di metterli nella cripta della vecchia cattedrale, l´unico edificio che resterà in piedi a testimonianza del passato. Incaricato del servizio è Ruggero Derigo che però, per lucrare sull´incarico, vi adempie solo in parte; della circostanza si accorge il cugino Luigi Derigo, che è il vero protagonista della storia e che fissa un appuntamento nei pressi appunto dell´antico edificio religioso per avere una spiegazione. I due si incontrano, Luigi è da solo e ha la netta sensazione di essere caduto in una trappola, perché Ruggero è accompagnato da alcuni "bravi". Infatti Luigi viene pugnalato, bastonato e il suo corpo è gettato nella cripta, già piena dei morti del cimitero. Ruggero ha architettato questo in quanto unico erede di Luigi, proprietario di una redditizia salina. Il delitto sembra andato a buon fine, ma Luigi, creduto morto, non lo è. Non vado oltre, perché la storia, che non è un horror, ma un noir, merita di essere scoperta dal lettore e dico subito che è una bella storia.
Al di là della trama, molto ben congegnata, l´interesse del romanzo sta nella dimostrazione di come in noi conviva sempre un lato oscuro, che può emergere in determinate circostanze, ma che in ogni caso si deve cercare di non far prevalere, affinché sia quella luce che portiamo dentro che possa sempre trionfare. Nella vicenda di Luigi, che sopravvive grazie all´aiuto di una vecchietta considerata da tutti una strega, il desiderio di vendetta, più che mai motivato, assume i contorni di una vittoria, sia pur temporanea, della bestia che è in noi e di cui fanno le spese anche degli innocenti. Ma poi, per fortuna, la ragione ha il sopravvento ed è come se l´individuo rinascesse a nuova vita; la tematica non è nuova e in essa si sono cimentati, anche in epoche passate, molti narratori, ma in Faccia di sale l´ambientazione, la trama e l´atmosfera sono resi al meglio, così che il mostro che è in noi emerge quasi con naturalezza, senza essere il frutto di torbide sperimentazioni come nel caso dello strano caso del Dottor Jekyll e Mr. Hyde di Robert Louis Stevenson.
Per quanto ovvio, la lettura è raccomandata.
La sartoria di via Chiatamone - Marinella Savino
Non è stato il piazzamento da finalista al Premio Calvino che mi ha indotto a leggere questo libro, bensì l´ultima di copertina che parla di una donna dalla eccezionale forza d´animo nella città di Napoli durante la guerra. Quindi la presenza di un personaggio altamente positivo nel dramma della seconda guerra mondiale ha costituito per me l´incentivo per acquisire questo romanzo. Purtroppo, già dall´inizio della lettura mi sono imbattuto in un particolare che mi ha mal predisposto, vale a dire i dialoghi dei personaggi nel dialetto napoletano che ogni tanto usa anche la voce narrante. Qualcosa sono riuscito a capire, per altre sono andato a senso, per non poche frasi mi sono arreso. Mi chiedo che logica ci possa essere nel fatto che un narratore italiano non scriva nella nostra lingua, ma in un dialetto locale, anche se abbastanza conosciuto. Per un appassionato di letteratura come me arrivare all´ultima pagina è stata una fatica non indifferente e pur tuttavia sono riuscito a comprendere le intenzioni di Marinella Savino, e cioè narrare una saga familiare in capo a un personaggio notevolmente positivo nello scenario, prima incombente, poi presente, di un conflitto sanguinoso. Nello scopo c´era tanto materiale da trattare, si presentavano tante opportunità per non dico scrivere un romanzo del livello di La Storia, di Elsa Morante, ma comunque un´opera che parlasse della tragedia della guerra non in modo convenzionale. E invece a Marinella Savino sfugge la misura nel descrivere i drammi che finiscono per coinvolgere ben poco chi legge. I bombardamenti così diventano la materia prima per affermare la generosità della protagonista e di suo marito, encomiabile indubbiamente, ma senza che si possa arrivare a comprendere l´evidente dilemma dei due fra il desiderio di aiutare e la paura di sobbarcarsi così un onere eccessivo. Ci troviamo di fronte al classico caso che non ci sono vie di mezzo, come invece nella realtà, o buoni solo, oppure solamente cattivi, per quanto questi ultimi siano sullo sfondo rappresentati impersonalmente dai gerarchi fascisti e dalle truppe tedesche di occupazione.
Concludo quindi rilevando che alle buone intenzioni poi non sono corrisposti i fatti per concretizzarle, ma sarebbe stato, secondo me, comunque un romanzo accettabile se non presentasse il già evidenziato difetto della difficile leggibilità per il ricorso continuo al dialetto, purtroppo non sempre comprensibile. E´ questo senza dubbio l´elemento negativo più evidente e che svilisce marcatamente l´opera.
Il segno di Attila - Guido Cervo
Ho letto ormai pressoché tutto della non trascurabile produzione di Guido Cervo, autore di romanzi ambientati in epoche diverse, opere di cui sempre ho potuto apprezzare la fondatezza storica e l´assenza di eccessi nella creatività, sia per quanto concerne i personaggi realmente vissuti, sia per quanto riguarda quelli frutto esclusivamente di fantasia. In questo libro, Il segno di Attila, si occupa della guerra fra unni e romani, in piena decadenza dell´impero che ha già subito parecchie invasioni barbariche e che addirittura nel 455 ha patito il sacco di Roma da parte dei vandali di Genserico, allorché la città non era più da tempo capitale dell´impero, essendo divenuta tale nel 402 Ravenna, dove Onorio trasferì la sua corte per le maggiori capacità di difesa offerte dal nuovo insediamento. In effetti, l´occidente romano sembrava diventato facile terreno di conquista, consentendo a barbari provenienti dal Nord e dall´Est di erodere piano piano i territori che erano stati parte dell´impero. Una minaccia particolarmente pericolosa veniva dagli Unni, il cui re Attila si era messo in testa di occupare la Gallia, desideroso di impalmare Onoria, sorella dell´imperatore Valentiniano III, in ciò spronato da un desiderio espresso dalla stessa di essere liberata dall´ambiente oppressivo di corte. Attila di certo equivocò, perché a Onoria non era mai passata per la mente l´idea di unirsi in matrimonio con il potente re degli Unni. Agli inizi della guerra i feroci Unni dilagarono in Gallia, ma poi si trovarono di fronte il magister militum Flavio Ezio, che riuscì ad avere come alleati i visigoti e altre tribù germaniche. Lo scontro avvenne il 20 giugno del 451 ai campi Catalaunici e la vittoria arrise ai romani, ma Flavio Ezio evitò di ottenere un risultato schiacciante, nel timore che l´annientamento degli Unni potesse di fatto rafforzare notevolmente i Visigoti. Fu un errore gravissimo, perché l´anno dopo Attila rivolse le sue mire sull´Italia.
Come al solito, grazie al suo stile, mai ampolloso, conciso, senza essere eccessivamente breve, Cervo ha confezionato un romanzo che si legge con vero piacere, un puro e appagante svago che mi ha tenuto compagnia nelle ore torride di un´estate più tropicale che italiana. Quel che stupisce nel romanzo è la capacità di coinvolgimento del lettore, che si sente attratto, oltre che dalla trama, dalla personalità dei protagonisti, veramente indovinati, e per non farci mancare niente Cervo è riuscito anche a inserire una passione amorosa, che è ulteriore motivo di conflitto fra l´unno Balamber e il romano Sebastiano.
Per quanto ovvio Il segno di Attila è più che meritevole di lettura.