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La rizzagliata - Andrea Camilleri
Povera Italia, verrebbe da dire giunti all'ultima pagina, ma sarebbe più opportuno concludere con un poveri noi.
La rizzagliata, infatti, è un giallo alla Sciascia in cui si rappresenta il diffuso cinismo che sembra soffocare ogni giorno di più quello che un tempo veniva chiamato Il bel paese.
Non troviamo il commissario Montalbano e questo giustamente, perché la denuncia di Camilleri di un'insieme di cose quotidiane a cui ormai ci siamo quasi assuefatti esula da quello che è il semplice romanzo giallo che vede protagonista il simpatico poliziotto (anche se a volte pure lì ci sono allusioni nemmeno tanto velate ai mali attuali). La rizzagliata non è stato scritto per divertire il lettore, ma per avvertirlo, per mostrargli il degrado in cui è immerso e di cui sovente ha solo una vaga consapevolezza. In questo senso può essere anche considerato un romanzo storico, pur nell'ambito di personaggi di esclusiva fantasia, ma il mondo rappresentato, le connivenze e le furberie, gli interessi solo in apparenza contrapposti costituiscono un preciso atto d'accusa a una classe, quella dei politici, che vive una realtà tutta sua, in una sorta di limbo infernale le cui manifestazioni esteriori sono di pubblico dominio, una sorta di rissa in cui gli altri - cioè il popolo - sono ridotti al rango di semplici spettatori.
Se è vero che la rizzagliata è una rete da pesca da cui il pesce difficilmente può scappare, è altrettanto vero che è pressoché impossibile sfuggire alla rete che il potere politico, economico e mediatico costruisce attorno a una persona. Nel libro c'è una costruzione siffatta che, nella sua individualità, può essere tuttavia estesa all'intera collettività, impotente di fronte a un accerchiamento di forze che di fatto ha addormentato le coscienze e nauseato, fin quasi allo sfinimento, chi ancora ha occhi per vedere.
In particolare, nel romanzo l'intreccio esistente fra gli organi di informazione, potere politico, potere economico e potere mafioso portano a un profondo senso di disgusto che è la prova certa di quanto la decadenza a tutti i livelli, compresi quelli familiari, stia corrodendo gli animi, in un trionfo dell'amoralità, in cui tutto viene fatto senza il benché minimo esame di coscienza. E poiché nell'uomo sono naturalmente presenti il male e il bene, nel ridursi ai più bassi istinti finirà sempre con il prevalere, senza battaglia, il male.
Camilleri questa volta ha inteso scrivere un romanzo più impegnato, ha lanciato un grido, per non dire un urlo che chissà se sarà udito. Indubbiamente si nota nello scritto quanto la questione gli stia a cuore, c'è insomma una sua partecipazione emotiva che nuoce un po' all'equilibrio del testo (o forse questo mondo di pazzi, così ben descritto, è squilibrato per sua natura).
La rizzagliata è un piatto freddo, per non dire gelido, un'unica portata per un popolo che sembra non avere più fame di verità. Eppure, a Camilleri va un plauso per la sua incrollabile tenacia che lo porta a condurre, nonostante l'età avanzata, una battaglia che sembra persa in partenza.
Tanto di cappello, quindi, con la speranza che chi leggerà questo eccellente romanzo possa comprenderlo nel suo autentico significato, risvegliando magari una coscienza da troppo tempo sopita.
RENZO MONTAGNOLI - 7 mesi fa
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Tre storie di paura - Giuditta Campello, Beatrice Costamagna
3 storie molto belle e divertenti, lasciano un po' di suspence ai bambini e hanno un finale inaspettato. consiglio vivamente
ANGELA SCANDIANI - 7 mesi fa
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Lupo Astolfo salva le api - Chiara Lorenzoni
libro veramente bello e piacevole. consiglio
ANGELA SCANDIANI - 7 mesi fa
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La vita e i giorni - Enzo Bianchi
L’accostamento all’opera filosofica di Marco Tullio Cicerone non è azzardato, perché lì, come in questo lavoro di Enzo Bianchi, si parla della vecchiaia. Certo sono passati non pochi anni, tanti in verità, da far temere che lo scritto del filosofo romano possa essere superato, ma non è così, perché l’ultimo periodo della vita di un uomo non è diverso da quello di oltre duemila anni fa. All’epoca Cicerone prese in esame le critiche mosse alla vecchiaia (la decadenza fisica, l’attenuarsi dell’attenzione, l’affievolirsi, fino a scomparire, del piacere dei sensi, la paura della morte incombente) per confutarle; sullo stesso percorso si esprime Enzo Bianchi, con un libro di rara profondità e bellezza, scritto in modo facilmente intellegibile, capace di infondere pagina dopo pagina quel senso di serenità che è proprio di chi si rende conto che tutto è nell’ordine delle cose, che si nasce, si cresce, si invecchia e si muore. Quello che è importante, quello che rende la vita irripetibile e appagante è l’umanità, è la consapevolezza che c’è un senso in tutto e che quindi la vecchiaia, e poi la morte, non devono preoccupare. Non ci si deve fare assalire dalla malinconia o peggio ancora dalla tristezza, ma anche i giorni della tarda età devono essere vissuti con piacere e pienamente, non pensando al dopo come quando si era giovani e la morte ben difficilmente entrava nelle nostre riflessioni.
Si avverte chiaramente che è un libro scritto da una persona non giovane (la prima edizione è del 2018 allorché l’autore aveva 75 anni) ed è del tutto naturale che sia così, perché una fresca età cozza con le possibilità di parlare dei problemi connaturati a una tarda età, problemi che non sono univoci, ma che sono riscontrabili, magari in diversa misura, fra quelli che con un pietoso eufemismo si definiscono diversamente giovani.
Sono pagine in cui è facile ritrovarsi (ovviamente questo vale per i vecchi), scritte con tono lieve, ma che anche commuovono, come quando l’autore motiva la decisione di dimettersi nel 2017 da Priore della Comunità di Bose, che lui ha fondato. Al riguardo riporto il periodo: “ Giunta per me la vecchiaia e una maggior stanchezza, ho sentito il desiderio di lasciare la presa, soprattutto di lasciare che le generazioni successive alla mia continuassero con un nuovo soffio un’opera che sarà sempre incompiuta.”(Pagina 133)
Peraltro troviamo in questo libro un’emozione sincera per la vita vissuta e ancora l’entusiasmo per quella da vivere (da pagina 105 “ Grama la vita per i vecchi, comincio a sperimentarlo, anche se resisto e lotto perché voglio vivere la vecchiaia: non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei ultimi giorni.”); certo, Enzo Bianchi è un credente e questo lo aiuta non poco, ma le motivazioni, che sono di conforto per chi in tarda età vede crescenti i suoi problemi, sono di una tale umanità che anche l’ateo, o addirittura l’agnostico, non possono che convenire con lui.
Timoroso di trovare un quadro irrimediabile degli anni che mi aspettano, pagina dopo pagina sono stato contagiato dalle riflessioni dell’autore, ho apprezzato le citazioni bibliche sul tema, mi sono reso conto che avanti con gli anni, pieno di acciacchi, sono sempre io, con il corpo che sicuramente porta i segni del tempo, ma alla continua ricerca di ciò che di buono può portare l’età, nella piena consapevolezza che anche l’ultima stagione merita di essere vissuta.
Leggetelo, giovani e vecchi, perché è un libro che vale per tutte le età.
RENZO MONTAGNOLI - 7 mesi fa
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Con la lucerna accesa - Giovanni Telo
E’ con la copertina di questo libro che si presenta il maestro Anselmo Cessi, in una fotografia di classe, la sua classe, i suoi alunni delle elementari, maestro di insegnamento, ma anche maestro di vita, perché mai si piegò, nonostante la dittatura imperante, quel fascismo che non sopportava chi pensava diversamente al punto di bastonarlo, di rinchiuderlo, o peggio ancora di assassinarlo. Maestro di vita lo è stato anche con la sua morte , ucciso vilmente dai “bravi” dell’epoca, e anche questo fu un delitto che restò impunito, e non poteva essere diversamente, perché l’autorità che governava l’Italia ne è stata, anche direttamente, il mandante, e quindi mai avrebbe potuto sconfessare se stessa.
Anselmo Cessi nacque a Castel Goffredo, in provincia di Mantova, il’8 novembre 1877 e divenne, come la madre, maestro di scuola elementare. Nel 1906 si sposò e dall’unione con Erminia Schinelli, pure lei maestra, videro la luce sette figli, di cui cinque morirono da piccoli. Oltre all’attività di insegnante si impegnò anche politicamente, sia pure a livello locale, dapprima come iscritto del partito democratico-cristiano e successivamente nel Partito Popolare di Don Sturzo, ricoprendo vari incarichi. All’avvento del fascismo lo contrastò da subito democraticamente, auspicando sempre la tolleranza e il reciproco rispetto, ma quell’uomo con i baffi, quel maestro così battagliero nel difendere la libertà agli occhi di qualcuno divenne indigesto e con i metodi spicci della marmaglia lo misero a tacere. Fu la sera del 19 settembre 1926, mentre tornava a casa con la seconda moglie (la prima era deceduta) fu assalito da due uomini che lo presero a bastonate; ma non bastava e infatti uno dei due gli sparò un colpo, uno solo, purtroppo mortale.
Giovanni Telò, pure lui nativo di Castel Goffredo, avvalendosi di un’ampia documentazione, ne ha scritto la biografia, evidenziando il carattere e l’indubbia fede religiosa, con uno stile snello, scorrevole, quasi fosse una narrazione. Non si ferma però alla data della morte, ma va oltre con la ricerca dei responsabili, grazie anche alla testimonianza della vedova. Così furono portati alla sbarra Achille Nodari, il podestà, Enrico Bresciani, capomanipolo della Milizia, e Umberto Vescovi, dipendente della Federazione Provinciale del Partito Fascista. Le prove testimoniali quindi non mancavano, ma l’esito del giudizio era scontato in partenza con la piena assoluzione degli imputati.
Benché si tratti di un personaggio strettamente legato al suo territorio, il fatto stesso di essere annoverato fra i martirizzati dal fascismo lo rende già di per sé meritevole di essere conosciuto. Se poi si considera la sua azione, se si tiene presente la figura integerrima e si hanno presenti i suoi ideali, chiara emerge la nobiltà di questo umile maestro di campagna, un uomo libero che amava la libertà anche per gli altri.
Il libro, che merita senz’altro di essere letto, si avvale anche delle presentazioni di Egidio Caporello, vescovo di Mantova, di Mario Beruffi, sindaco di Castel Goffredo, di Filippo Cerini, presidente della Banca di Credito cooperativo di Castel Goffredo, di Neva Campanini, presidente dell’Associazione italiana maestri cattolici – Sezione di Mantova e della prefazione di Giorgio Runi, docente di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano.
L’opera, corredata da fotografie d’epoca e dalle indicazioni delle indispensabili fonti, è senz’altro meritevole di lettura.
RENZO MONTAGNOLI - 7 mesi fa
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Maledizione Gonzaga - G. L. Barone
Veramente una lettura molto interessante. Intrighi e difficoltà a seguire gli eventi all'inizio si dipanano con l'incedere della lettura. In grado di appassionare e tenere il lettore con il fiato sospeso fino alla fine. Consigliato.
MARA CANNISTRA' - 7 mesi fa
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Innamorati pazzi - Felicia Kingsley
Libro carino e veloce da leggere. Non il meglio di questa scrittrice.
MARA CANNISTRA' - 7 mesi fa
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La catena - Emilio Lussu
La catena completa in modo impeccabile la trilogia con cui Emilio Lussu dapprima ha parlato con Un anno sull'altipiano della Grande Guerra, conflitto dal forte impulso nazionalistico e quindi, in un certo senso, propedeutico del fascismo, quindi dell'avvento dello stesso con Marcia su Roma e dintorni e infine del consolidamento della dittatura proprio con l'opera di cui mi accingo a scrivere.
In ogni caso si tratta sempre di esperienze dirette, di vita vissuta, ma mentre il romanzo che si svolge sull'altopiano di Asiago e che è senz'altro uno dei libri di più forte impatto nel denunciare l'insensatezza e l'inutilità della guerra lascia più spazio alla creatività, i due successivi finiscono con il diventare la disamina storica di un periodo che si concluderà, dopo tanti lutti e tragedie, nel 1945.
Mussolini, raggiunto il potere, avverte la necessità di consolidarlo, diventando il padrone assoluto e, come in tutti i regimi totalitari, instaurando il principio secondo il quale o si è con il dittatore, o si è un nemico, da isolare, da rendere inoffensivo tanto da annientarlo. E' di questa fase che parla Emilo Lussu con La catena e che va dall'assalto alla casa dello scrittore di un centinaio di fascisti, a cui lui cercherà di opporsi uccidendone uno, al successivo processo, all'assoluzione combattuta e grazie a giudici onesti, ai provvedimenti del Tribunale Speciale grazie ai quali fu confinato a Lipari, da cui, insieme a Carlo Rosselli e Francesco Nitti riuscì a riparare in Francia con una rocambolesca fuga, che ebbe grande rilievo internazionale e che fu uno smacco per il regime.
Le azioni poste in essere da Mussolini per consolidare la sua posizione, come per esempio alcuni attentati alla sua persona armati dalla sua stessa mano, le nuove leggi che di fatto impedivano qualsiasi opposizione, il funzionamento dei Tribunali Speciali, la difficile esistenza dei confinati, dei loro familiari e dei loro amici danno vita a un quadro talmente orrendo che è lecito chiedersi come oggi ci sia ancora gente che crede nella bontà del fascismo (come del resto, in contrapposizione, ci sono quelli che ancora sognano un ritorno al comunismo staliniano). Il tutto è raccontato in modo notevolmente efficace, perché si è trattato di esperienza diretta e l'atmosfera fosca, cupa che aleggia in quelle pagine e che può intimorire oltre misura il lettore è saggiamente stemperata da una sempre presente ironia, anche se amara.
Senza retorica, senza esaltazione dei propri meriti, Lussu ci ha lasciato una testimonianza indispensabile per comprendere tante cose, anche per capire come per circa un ventennio una intera nazionale, fra partecipazione e più spesso indifferenza, si sia lasciata abbindolare da un uomo che voleva essere il padrone del mondo , ma che era senza qualità e che dal trono su cui si era issato finì appeso per i piedi alle strutture di un distributore di benzina a Milano.
Da leggere, quindi, e magari da inserire nei programmi scolastici.
RENZO MONTAGNOLI - 7 mesi fa
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Le mura di Adrianopoli - Guido Cervo
Sul tema avevo già letto 9 agosto 378 Il giorno dei barbari, un interessante saggio di Alessandro Barbero, e sono stato pertanto curioso, più del solito, di leggere il romanzo storico uscito dalla fertile penna di Guido Cervo. Come immaginavo, il narratore bergamasco si è attenuto fedelmente ai fatti, inserendo opportunamente personaggi e vicende di fantasia, sempre plausibili con un’abilità che gli deve essere riconosciuta.
I Goti, pressati dagli Unni, che non sottomettevano, ma uccidevano, chiesero aiuto ai Romani, in particolare domandarono di entrare nel territorio dell’impero e che fossero loro assegnate delle terre da coltivare, promettendo in cambio di servire militarmente sotto di loro. L’imperatore Valente dimostrò il suo interesse, onde ottenere truppe indispensabili per liberarsi una volta per tutte del pericolo persiano, consentendo ai Goti di varcare il Danubio per entrare così nel territorio romano; finì però con il non rispettare i patti, in particolare anche per la corruzione dei suoi dignitari che rubarono gran parte delle provviste destinate agli immigrati, a cui inoltre riservarono terreni pressoché incoltivabili. Ne derivarono reciproche diffidenze che si concretizzarono ben presto in scontri armati a cui Valente credette di porre rimedio provvedendo a una tregua con i persiani e convincendo Graziano imperatore d’occidente a soccorrerlo con una grande armata. Il destino dei Goti, accampati nei pressi di Adranopoli, sembrava segnato, ma quando si combatte per la propria sopravvivenza si aguzza l’ingegno ed è quel che fece il loro capo Fritigerno, ricorrendo a un’alleanza con gli Ostrogoti e gli Alani, che contribuì ad aumentare considerevolmente gli effettivi delle truppe. Valente, peraltro, era talmente sicuro della vittoria che non attese l’armata di Graziano, anche per dimostrare la sua superiorità, e decise di dare battaglia; in verità ci furono più tentativi per evitare lo scontro, uno addirittura anche sul campo, ma con gli uomini di entrambe le parti a fronteggiarsi per delle ore non era da escludere un incidente, il che avvenne per colpa dei romani, che così diedero inizio alla lotta. I Goti che, contrariamente ai calcoli sbagliati effettuati dagli esploratori imperiali, si rivelarono notevolmente superiori di numero, ben condotti da Fritigerno ebbero ben presto campo vinto. Infatti la battaglia si concluse con un’autentica disfatta dei romani, che fra le moltissime perdite registrarono anche quelle di alcuni generali e dello stesso imperatore Valente.
Da quel 9 agosto del 378 iniziò la caduta inarrestabile del più grande impero della storia, con l’esito infausto di una battaglia che non era altro che la conseguenza di un insieme di problemi che emergevano ogni giorno e ai quali non si voleva, ma anche non si poteva, dare soluzione.
Nel contesto della narrazione di Cervo, intorno al fil rouge storicamente del tutto attendibile, si innestano altre vicende minori che, oltre a dare corposità all’opera, mostrano indirettamente come il grande impero, apparentemente monolitico, avesse i piedi ormai di argilla; si tratta con ogni probabilità di pagine in cui prevale la creatività, ma hanno un peso non trascurabile e costituiscono motivo di ulteriore interesse.
Del resto non si possono che apprezzare lo stile snello, la felice caratterizzazione dei protagonisti, l’ambientazione precisa e la descrizione delle scene di guerra, contrassegnate da una notevole dinamicità, e infine, non meno importante, l’autentica pietà dell’autore per i suoi personaggi meno fortunati.
Le mura di Adrianopoli è un romanzo di notevole bellezza.
RENZO MONTAGNOLI - 7 mesi fa
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La banda dei carusi - Cristina Cassar Scalia
Il vicequestore Vanina Guarrasi riceve una telefonata da Don Rosario Limoli, un sacerdote impegnato, anima e corpo, a recuperare ragazzi tossicodipendenti o facenti parte di certi giri criminali. Sconvolto le comunica l’uccisione di Thomas Ruscica, uno dei suoi carusi, forse il migliore, perché oltre a essere redento era diventato lui stesso un volontario impegnato in analoga attività. Da lì nasce questo romanzo giallo di Cristina Cassar Scalia, oftalmologa sempre più operante nell’ambito della letteratura poliziesca e dato che in pratica si tratta di episodi di una stessa serie si ritrovano sempre i medesimi personaggi: appunto il vicequestore Vanina Guarrasi, donna d’azione, la sua squadra, con tutti i componenti ben delineati, il simpatico ex commissario Patané, da diverso tempo in pensione, ma sempre pronto a fornire il suo intuito, la vicina e padrona di casa Bettina, che, quando fa da mangiare, sembra che prepari il rancio, peraltro eccellente, per un reggimento e tanti altri, che non sto a nominare, ma che sono ricorrenti. Le indagini si presentano complesse e anche confuse, e in questo di suo mette non poco Cristina Cassar Scalia, ma alla fine, fra sospetti, levatacce e anche mangiate pantagrueliche, si arriva alla soluzione, purtroppo poco logica, circostanza non infrequente nella produzione di questa narratrice siciliana. Il suo problema è che si lascia prendere la mano, raccontando di amorazzi vari, di pranzi luculliani, seminando qua e là un numero di indizi eccessivo, così che alla fine salta fuori il colpevole che, se logicamente è in apparenza il meno sospettabile, però è anche vero che appare solo nelle ultime pagine. Certo la narrazione può anche essere utile per costituire un gradevole passatempo per chi legge che, però, finisce con il restare francamente deluso.
Considerato che non è il primo di questa narratrice con questa caratteristica di certo non positiva penso proprio di non leggerne altri.
RENZO MONTAGNOLI - 7 mesi fa
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