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Il treno dei bambini - Viola Ardone
Ci sono periodi nella storia dell'umanità in cui sembrano trionfare la violenza e l'egoismo, in cui nascono immani conflitti e altri già iniziati si perpetuano determinando nell'uomo comune un senso di sbigottimento e di sfiducia con il crollo di qualsiasi sentimento, con un materialismo accentuato che soffoca ogni aspirazione di pace. E' in questi momenti che si sente la necessità di un aiuto, di un qualcosa che faccia tornare a sperare, convinti che, nonostante tutto, c'è ancora spazio per il cuore.
Ecco, Il treno dei bambini è una lettura che illumina il buio che spesso ci avvolge, è quello stimolo che induce la speranza che ancora si può cambiare, è una meravigliosa storia d'amore e di affetti profondi, un libro che porta alla commozione senza che si sia ricorso ad artifici per questo, perché è la vita, la passione, il sentimento, la dignità, la compassione non certo facile. La narrazione parte da una vicenda vera, una missione di soccorso ideata a Milano dalla dirigente comunista Teresa Noce e dall'appena costituita Unione donne italiane. La seconda guerra mondiale era finita da poco, lasciando un paese distrutto da ricostruire e tanta miseria, soprattutto al Sud. Ed ecco allora istituire i treni della felicità, convogli che partivano dalle aree più misere carichi di bambini destinati a famiglie senz'altro più abbienti del Nord e del Centro dell'Italia. L'idea era di sfamarli, di vestirli, di far nascere in loro, attraverso la solidarietà, la speranza in un futuro migliore e poi restituirli alle famiglie d'origine. Andò poi a finire che molti rimasero a tempo indefinito e furono adottati, altri, restituiti ai legittimi genitori, vennero aiutati a distanza, con un'onda d'affetto capace di superare fiumi e montagne. Si parla di numeri rilevanti, di oltre settantamila fanciulli, un'operazione colossale in cui entrò anche la propaganda del Partito Comunista, ma indipendentemente da ciò fu un'opera altamente meritoria.
Uno di questi bimbi è Amerigo Speranza, che vive in un basso con la madre, che ha un padre che gli si dice che è andato in America a cercar fortuna, ma che invece lascia supporre una nascita senza una legittima paternità. E' timido, ma anche deciso e amante del sapere, tanto che viene soprannominato Nobel. Parte anche lui e la scena in cui il treno si muove dalla stazione di Napoli e i fanciulli a bordo si tolgono i cappotti che l'organizzazione aveva loro regalato, gettandoli alle mamme che stazionano di fianco al binario perché potessero essere utilizzati dai fratellini, è una di quelle che è impossibile dimenticare. Del resto sono non poche le pagine indimenticabili, in cui emergono del tutto naturalmente i sentimenti e più di una volta è quasi d'obbligo prendere un fazzoletto per asciugarsi una lacrimuccia.
Non vado oltre, perché la trama è talmente bella e ben congegnata che un sunto della stessa sarebbe incapace di rendere l'idea.
Preferisco soffermarmi sullo stile, su un linguaggio che, specie nel bambino io narrante, è capace di cogliere quella mescolanza fra dialetto e italiano che impreziosisce i dialoghi, sempre facilmente comprensibili. E poi la descrizione del viaggio in treno, la capacità di far parlare dei bimbi tenendo conto della loro età e del loro grado di istruzione, le passioni, i disagi psicologici, la consapevolezza di essere nella storia restando sempre umili sono qualità di grande spessore e consentono, supportate da una struttura solida, di confezionare quello che definisco un autentico gioiello. Non capita facilmente di arrivare all'ultima pagina quasi di corsa, di chiudere il libro e di sentirsi trasformati, di vedere fra le tante brutture della vita reale ciò che è invece è bello, è umano, di sentire rinascere in sé la speranza per un mondo migliore.
RENZO MONTAGNOLI - 5 mesi fa
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Metropolis - Flavio Soriga
Non intendo spendere tante parole, a differenza dell’autore che ne spende troppe. E’ un giallo, ma si perde presto la tensione tipica del genere con tante di quelle digressioni che confondono le idee. Greve come un macigno, si legge con fatica, insomma decisamente brutto.
RENZO MONTAGNOLI - 5 mesi fa
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L'ananas no - Cristiano Cavina
Dopo Fratelli nella notte, onde anche addivenire a un giudizio più compiuto di questo narratore, ho preferito cimentarmi con la sua ultima pubblicazione, L’ananas no, un giallo romagnolo che ne è anche il sottotitolo. Cercavo conferme e purtroppo non ne ho trovate, perché in questo romanzo, che si svolge soprattutto in una pizzeria, c’è tanta carne al fuoco, oltre all’intenzione di permearlo di uno spirito più ironico che comico. I tanti personaggi e anche la difficoltà di mantenere un atteggiamento lieve, ma non vuoto, secondo me dà luogo a una discontinuità che non può che nuocere, soprattutto quando la vicenda ha colori che tendono al giallo.
E qui entrano in gioco le doti naturali e le capacità acquisite nel tempo con studi ed esperienze, comunque appena accennate tanto che ne risulta un lavoro che parte con le migliori intenzioni, che poi vengono però puntualmente disattese. Fra l’altro lo stile dell’autore non mi piace, troppo ridondante, a volte tendente al cazzeggio e in ogni caso inferiore a quello che si aspetterebbe da un narratore che dovrebbe essere di lungo corso.
RENZO MONTAGNOLI - 5 mesi fa
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Romagna mia! - Cristiano Cavina
Da un romagnolo mi sarei aspettato uno scritto sulla Romagna descritta come un grande paese, con personaggi indimenticabili, il tutto accompagnato da una vena più o meno marcata di ironia, e in effetti il tentativo c’è stato, nel senso che Cavina deve essersi ricordato dell’Amarcord di Fellini. Il risultato però è molto diverso, il che dimostra che gli svolgimenti dello stesso tema, per quanto ci sia il tentativo di scopiazzare quello del più bravo, non sono mai in grado di dare i risultati sperati. Perchè? La differenza sta nel manico, cioè nelle doti innate, in base alle quali c’è il narratore di razza e c’è chi scrive, chi si arrabatta a mettere giù di due righe , assai più da artigiano che da artista.
E cosi Romagna mia! anziché appassionarmi e divertirmi è stata l’occasione per annoiarmi, tanto sono limitate, e peraltro mal sviluppate, le idee.
Per concludere, non intendo tediare ulteriormente chi leggerà questa mia opinione, per conoscere Cristiano Cavina ho scelto tre sue opere e solo una, Fratelli nella notte, mi è sembrata discreta, a differenza delle altre due, troppo modeste.
RENZO MONTAGNOLI - 5 mesi fa
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Piu' alto del mare - Francesca Melandri
Più alto del mare è il primo libro che leggo di questa narratrice e sceneggiatrice romana e in tutta sincerità l´ho scelto perché mi risulta sia stato finalista al Premio Campiello e abbia vinto il Premio Rapallo Carige. Non è che mi lasci influenzare dai risultati nei concorsi letterari, ma in un periodo in cui trovo opere di autori italiani contemporanei sempre meno valide ho voluto accertarmi se gli onori tributati, almeno a mio giudizio, fossero meritati.
Il romanzo parla dell´incontro casuale di due persone, un uomo e una donna, in visita al carcere di massima sicurezza sito in un´isola che, dalle descrizioni, sembrerebbe essere l´Asinara; lui va a trovare il figlio, terrorista e pluriomicida, lei invece va dal marito, pure lui pluriomicida. Come al solito non intendo rivelare la trama, molto interessante, perché preferisco soffermarmi sulle caratteristiche del lavoro dove si parla dei famosi anni di piombo che tanto hanno sconvolto l´Italia mietendo molte vittime innocenti. La Melandri non giudica, né si sbilancia al riguardo, in quanto il fenomeno eversivo costituisce solo lo sfondo in cui si svolge la vicenda; analizza invece i comportamenti delle vittime indirette, in questo caso la donna, in quanto moglie dell´omicida e vittima lei stessa delle sue violenze, e l´uomo, il padre del sanguinario terrorista. La condanna all´ergastolo dei loro congiunti vale anche per loro, perché la loro vita ne è stata stravolta; i loro silenzi, i loro sguardi vuoti di esseri senza speranza sono un denominatore comune, vegetano ormai più che vivere, in giornate sempre uguali e sempre cupe, ma un evento imprevisto, una burrasca che impedisce al battello di trasportarli sulla terra ferma sarà un evento tanto imponderabile quanto salvifico. Costretti a pernottare in un alloggio di fortuna (non ci sono alberghi), con il conforto anche di una guardia carceraria che ha un segreto da celare, in quelle poche ore e in quelle del ritorno prima alla terra ferma e poi al continente troveranno un motivo per continuare a vivere, si svilupperà una compartecipazione, una reciproca compassione che senza essere amore è però affetto. Non anticipo la fine del romanzo, tanto più che non è come ci si può attendere e in fondo è quella giusta, più realistica, più in sintonia con gli eventi del passato che hanno lasciato un segno indelebile.
I due protagonisti Luisa e Paolo sono di quelli che non si dimenticano facilmente, come anche Nitti, l´agente di custodia, e sua moglie Maria Caterina, la dolce maestrina che attende la risposta alle domande che ha dentro.
Con una struttura solida, ben impostata, con un ritmo blando più che mai consono alla vicenda, si apprezzano anche le capacità descrittive del paesaggio, del mare, del cielo, nonché l´atmosfera, sospesa, come fuori dal tempo, quel tempo che non ha significato per chi non ha speranze. Lo stile è quanto di meglio si possa trovare per un romanzo la cui lettura mi sento di consigliare, anche perché giunti alla fine si ha netta la sensazione che non poco sia rimasto dentro di noi e perché verso i protagonisti si prova un sentimento di autentica compassione.
RENZO MONTAGNOLI - 5 mesi fa
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La prigione - Georges Simenon
In La prigione abbiamo un protagonista assoluto, Alain Poitaud, direttore trentaduenne di un periodico a grande tiratura; l´uomo avrà la vita sconvolta da un evento tremendo, cioè l´uccisione della cognata a opera di sua moglie, fatto tanto più insolito, considerati i rapporti intercorrenti fra l´assassina e la vittima, cioè si tratta di due sorelle.
Quest´uomo, con una moralità solo apparente, che va a letto con tutte e che aveva intrecciato una lunga relazione con la cognata, terminata alcuni mesi prima del misfatto, cercherà di capire, indagherà sul movente finendo inevitabilmente per cercare in se stesso.
Ne esce un quadro sconfortante, non solo individuale, ma anche di una borghesia fatta di gesti ripetuti in cui l´apparenza è la sostanza, dove l´immoralità è consuetudine diffusa, un quadro deprimente in cui si bruciano esistenze senza concrete e durature soddisfazioni.
La prigione è un romanzo non proprio lineare, anzi tortuoso, come se Simenon, nella preoccupazione di far conoscere al protagonista se stesso abbia preferito un po´ tralasciare le esigenze dei lettori, che a volte si trovano perplessi di fronte all´evoluzione della trama. Tuttavia la mano sicura e l´esperienza dell´autore evitano che la vicenda deragli, anzi, grazie a una trovata geniale, verrà riservato un finale inatteso che non potrà che soddisfare il lettore facendo dimenticare alcune parti della struttura non proprio realizzate come si deve.
Il romanzo, pur essendo intrigante, non è tuttavia a livello dei migliori di Simenon; mancano le atmosfere di quelli d´anteguerra, l´analisi psicologica, se pur sempre presente, è meno attenta e si possono notare certe forzature nella descrizione dei personaggi che in passato apparivano invece più naturali.
Resta comunque senz’altro leggibile.
RENZO MONTAGNOLI - 5 mesi fa
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L'ora di tutti - Maria Corti
Nell´agosto del 1480 i Turchi assediarono Otranto, i cui cittadini si difesero con la forza della disperazione, ma alla fine dovettero cedere di fronte a forze enormemente superiori. Agli uomini superstiti, all´incirca ottocento, fu proposto di convertirsi all´Islam evitando così di essere uccisi, ma rifiutarono e furono decapitati tutti il 14 dello stesso mese, diventando così Martiri della Chiesa.
Maria Corti, filologa e narratrice, ha scritto di questo fatto un romanzo storico, caratterizzato dal racconto di cinque personaggi che forniscono la loro esperienza della vicenda. I primi quattro ne parlano da morti, scrivono quasi il loro epitaffio in una specie di Spoon River del XV secolo; l´ultimo invece è un cavaliere che narra della grande festa che si ebbe allorché gli spagnoli riuscirono a riconquistare la città, una sorta di lieto fine dopo tanto dolore.
Il primo personaggio è un pescatore, Colangelo, che trova la morte combattendo sulle mura, il secondo è il capitano Zurlo, governatore militare della città, che perirà nel tentativo di difenderla, il terzo è la bella Idrusa, una vedova otrantina, che si suiciderà per evitare di essere violata da un turco, il quarto è Nachiria il pescatore che sarà uno dei decapitati e del quinto, Aloise De Marco, si è già detto.
Le cinque narrazioni non sono indipendenti, ma si collegano come quelle pale d´altare dove si raffigurano la Natività, o la passione di Nostro Signore, così che il lettore ha netta la sensazione che si tratti, come in effetti sono, di capitoli dello stesso romanzo. Questa continuità, per quanto i protagonisti di volta in volta siano diversi, rappresenta indubbiamente uno dei motivi di interesse di un´opera che, al di là della vicenda di per sé attraente, è caratterizzata da altri pregi, quali lo stile semplice, ma efficace, mai ridondante e tanto meno permeato di retorica, e le descrizioni dei paesaggi che sono quanto di meglio mi è capitato di leggere.
Maria Corti, inoltre, è capace di scendere in profondità nell´analisi psicologica dei personaggi e di rappresentarli in quello che sono veramente, quindi ben oltre le apparenze, dando a ciascuno di loro quella che doveva essere la voce di tutti, perché prima ancora del sacrificio per la religione c´è il senso dell´onore, la dignità di un popolo che combatte e muore per la propria libertà, e l´ora di tutti è quella che, prima o poi nella vita, capita a tutti, quella in cui ognuno di noi riesce a dimostrare, prima a se stesso e poi agli altri, quel che vale, che sia poco o che sia tanto.
Il libro è sicuramente molto bello e l´unico appunto che mi sento di fare, ma che non inficia il mio giudizio ampiamente positivo, è che mai mi sarei aspettato da una studiosa come la Corti che parlasse anche di pomodori e zucchine, ortaggi giunti in Europa dopo la scoperta dell´America, cioè dopo il 1492, mentre l´assedio e il massacri di Otranto sono del 1480.
In ogni caso L´ora di tutti è sicuramente meritevole di lettura.
RENZO MONTAGNOLI - 6 mesi fa
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All'arme! All'arme! I priori fanno carne! - Alessandro Barbero
Fin dall´inizio a Barbero preme precisare che c´è una differenza di sostanza fra rivolta e rivoluzione, poiché la prima è il tentativo di sovvertire l´ordine costituito, mentre la seconda è il risultato positivo dell´azione di rimozione con la forza dell´ordine precedente. Inoltre, tiene a evidenziare il perché le rivolte nel Medioevo si siano concentrate negli ultimi anni del XIV secolo e per far questo discute ampiamente di questi eventi, vale a dire nel 1359 la Jacquerie in Francia, nel 1378 i Ciompi a Firenze, nel 1381 l´insurrezione inglese e nel 1386 la rivolta dei Tuchini nel Canavese.
Il tema trattato è di indubbio interesse perché cerca di spiegare i motivi per i quali dei moti popolari si siano conclusi in un insuccesso, onde così comprendere quelli che invece hanno consentito un sovvertimento dell´ordine costituito con effetti di lunghissimo periodo, quali la rivoluzione inglese del seicento, quella americana e francese del settecento e, se pur con una durata di molto inferiore, quella russa del 1917.
Per far questo e per cercare di rendere più comprensibile il suo elaborato Barbero si avvale della non indifferente sua capacità affabulatoria, ma, a mio parere, in questo caso esagera, infarcendo le pagine di un numero ridondante di notizie tale che è facile che chi legge perda il filo del discorso.
Non contesto le indubbie capacità dello storico piemontese, ma in tutta franchezza ho avuto l´impressione che fra tanti eventi e particolarità degli stessi abbia finito pure lui per perdersi.
Ciò non toglie che l´opera abbia motivo di interesse, ma resta il fatto che non ci troviamo il fronte all´Alessandro Barbero che ben conosciamo, la cui chiarezza di esposizione prima non era mai venuta meno.
RENZO MONTAGNOLI - 6 mesi fa
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Camon - Filippo Cerantola
Non è certo facile scrivere di Ferdinando Camon, anzi sono dell’opinione che sia particolarmente difficile, perché non è un autore monotematico, ma un attento osservatore della società e del suo divenire che analizza in modo accurato, ritraendo quadri letterari che sono sostanzialmente la realtà. Ci ha provato Filippo Cerantola con questo suo Camon, un lavoro che mi è sembrato molto ben realizzato, volto a proporre al lettore un’immagine completa di uno dei maggiori autori della nostra letteratura e credo che anche lo stesso Camon sia d’accordo sul buon risultato dell’opera.
In 288 pagine c’è tutto, proprio tutto, esposto in modo organico e razionale, la sua vita, i suoi rapporti con gli altri, il suo pensiero politico, l’analisi della sua produzione letteraria distinta in Ciclo degli ultimi, Ciclo del terrore e Ciclo della famiglia, i numerosi articoli pubblicati su diversi giornali.
Proprio per quanto concerne i romanzi e anche le poesie ho notato, con piacere, che il giudizio, sia pur necessariamente abbastanza sintetico, è tuttavia esaustivo, a tutto vantaggio ovviamente di chi legge che così può avere una visione completa di tutte le sue opere, tale da comprendere la grandezza del loro autore, ma anche da invogliarlo a procedere alla loro lettura.
Per quanto i libri dei singoli cicli siano rappresentativi delle realtà di una società in evoluzione (basti pensare a Occidente, con la tematica del terrorismo che ha insanguinato a lungo l’Italia) e dunque siano tutti estremamente interessanti, compreso quello della famiglia, così cambiata negli anni, credo che Ferdinando Camon sia più noto per i suoi romanzi del Ciclo degli ultimi (Il Quinto Stato, La vita eterna, Un altare per la madre, Mai visti sole e luna, La mia stirpe). Lì si parla di una civiltà millenaria scomparsa in pochi anni, un mondo che era tutto a sé, fatto di miseria, di superstizioni, ma anche di reciproco soccorso, laddove la civiltà contadina per uno nato oggi sarebbe del tutto incomprensibile. Il tema è particolarmente sentito da Camon perché lui era parte di questa civiltà, figlio di contadini viveva in campagna, e quindi ne ha conosciuto i riti, è stato testimone della sua arretratezza, ha provato sulla sua pelle la sofferenza di essere contadino. Ed è stato proprio Il Quinto Stato il libro che lo ha fatto conoscere ai lettori, un volume che ha beneficiato della prefazione di Pier Paolo Pasolini, suo grande estimatore. Sono poche righe, due paginette sul cui contenuto tuttavia lo scrittore padovano dissente; all’epoca non si oppose, vista anche la notorietà del prefatore, ma in seguito, ripensandoci, si accorse che l’immagine che Pasolini aveva ritratto era di una civiltà sì morta, ma a cui era auspicabile tendere di nuovo, considerandola una sorta di Arcadia. Invece, il mondo contadino si estrinsecava in una situazione statica, in una vita di autentica sofferenza per una miseria atavica e che pareva irrimediabile; pertanto, secondo Camon, era più che giusto che finisse, demolito dall’industrializzazione e dal consumismo, grazie ai quali tanti miserabili potevano accedere a un po’ di benessere e a un’esistenza più dignitosa, ma come sempre capita laddove prevale il denaro si perdono i sentimenti, gli unici pregi fra tanti difetti. Al riguardo mi sovvengo di una frase che Ferdinando Camon inserì in una risposta all’intervista che gli feci l’8 maggio 2009 e che ha una valenza universale, essendo una gran verità: ”Il progresso ha un prezzo. È molto quel che guadagniamo, ma è molto quel che perdiamo. Io racconto quel che perdiamo. Sono un narratore parziale e limitato, lo so e lo dichiaro. Non sono un narratore del progresso, ma del prezzo del progresso.”.
Per quanto si tratti di saggistica, cioè di un lavoro di lenta assimilazione, mi sento di dire che Cerantola meglio non poteva fare, grazie anche allo stile snello e alla capacità di focalizzare rapidamente le tematiche, riuscendo a dire molto senza dilungarsi eccessivamente. Peraltro l’editore Apogeo ha corredato il libro di due scritti, uno del poeta e scrittore Gian Mario Villalta e l’altro del docente universitario e critico letterario Massimo Onofri, contributi importanti e autorevoli che lo impreziosiscono ulteriormente.
Non dico altro, meglio di me potrà dire la lettura di questo riuscito saggio.
RENZO MONTAGNOLI - 6 mesi fa
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Ridere - Pera Toons
bello fa molto ridere io lo consiglip
Utente 18458 - 6 mesi fa
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