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Milano : Sperling & Kupfer, 2010
Abstract: Lontani da casa, dagli affetti. Ma anche lontani dalla battaglia, dall'adrenalina del fronte. Erano soldati nel pieno della giovinezza, quelli che fra il 1941 e il 1947 si ritrovarono esiliati a Zonderwater, in Sudafrica. Un'intera generazione rinchiusa nel campo che ospitò il maggior numero di prigionieri di guerra italiani, quasi centomila su un totale di oltre seicentomila: una prigione a cielo aperto, talmente remota da aver lasciato poche tracce persino nei libri di storia. In un paesaggio lunare, arido e bersagliato dai fulmini, gli italiani dovettero inventarsi un modo per sopravvivere alla fame, alle malattie, alla noia, alla nostalgia del proprio Paese (e alla mancanza di donne). Li aveva accolti un altipiano brullo disseminato di tende: alla loro partenza, sei anni più tardi, lasciarono una vera città, con edifici in muratura, due ospedali, trenta chilometri di strade, quindici scuole, ventidue teatri, un monumento. Fu un capo illuminato, il colonnello Hendrik Fredrik Prinsloo, a capire che a quei giovani uomini doveva prima di tutto restituire una vita normale. Così scelse lo sport come alleato: promosse gare di scherma, atletica, ginnastica, oltre a un campionato di calcio vissuto con tale passione da trasformare in divi i più bravi fra i prigionieri. (Prefazione di Gian Antonio Stella)
Moderators: Valentina Tosi
25 giugno 2023 alle 09:34
Già me ne aveva accennato mio padre quando ero giovane nel corso di una delle rare volte in cui parlava della guerra in cui aveva combattuto e dove era stato fatto prigioniero nel febbraio 1941, una detenzione che sarebbe durata fino al 1946 soprattutto in un campo di concentramento in Sud Africa. Poi, più recentemente, leggendo Sotto la sabbia dorata, il bel libro di Daniele Astolfi che parla dell’esperienza di prigionia di Antonio Astolfi, era sorto il nome di Zonderwater, che non mi era nuovo, e infatti era il lager in cui è stato a lungo recluso il mio genitore. Da lì, facendo una ricerca su Internet, era emerso un saggio storico (appunto I diavoli di Zonderwater) su questo campo di concentramento dove erano anche detenuti Antonio Astolfi e tanti altri (complessivamente circa centomila) E’ stata immediata la necessità di leggere anche quest’opera, scritta da un giornalista della Gazzetta dello Sport e premiata con il Bancarella Sport 2010. Ebbene, mi dispiace ancor di più che mio padre, mancato nel luglio del 2011, non abbia potuto rivivere, grazie a quelle pagine, gli anni che avrebbero dovuto essere i più belli e che invece furono un periodo di dolore per la guerra e di disperata nostalgia per la casa lontana. Mano a mano che procedevo nella lettura emergevano fatti e anche nomi che non mi erano nuovi e allora con la fantasia ho immaginato tutta quella gente, compreso mio padre, in questa prigione a cielo aperto, dove, grazie alla nomina come comandante del colonnello Hendrik Fredrik Prinsloo, il paesaggio lunare del lager, costellato di tende, si trasformò radicalmente, così che in forza della naturale operosità di noi italiani furono costruiti edifici in muratura per ospitare i prigionieri, due ospedali, quindici scuole, ventidue teatri, insomma una vera e propria città. Ma oltre al fare, all’edificare, essenziale per evitare depressioni e abbrutimenti, ci furono le iniziative teatrali, sportive, come tornei di calcio, di pallavolo, di basket, incontri di pugilato, gare di atletica leggera, e ovviamente queste attività hanno trovato il loro naturale storico in Carlo Annese, giornalista della Gazzetta dello Sport. Però, se queste pratiche sportive sono preminenti nel testo, non mancano altri fatti, altre notizie, annotazioni su come si viveva, su come si mangiava (poco) e sui rapporti interpersonali. Certo il posto, povero d’acqua, donde il nome, non era molto attraente, ma occorre dare atto che le guardie e i responsabili sudafricani della struttura erano ben organizzati, dimostrandosi oltre tutto per niente degli aguzzini. Mancava la libertà e questo era innegabile, però i reclusi poterono trascorrere tanti anni senza deprimersi e questo per merito di un comandante illuminato, quel colonnello Prinsloo il cui nome non sarebbe mai stato dimenticato, associandolo a quanto di bene aveva fatto per loro. La scrittura di Annese è lineare, agile e per nulla affaticante; peccato solo che sia prevalente il tratto giornalistico, cioè la cronaca, e che in ben pochi casi si approfondisca, magari tentando un’analisi psicologica di alcuni personaggi ricorrenti.
Pur con questi limiti il libro è meritevole di lettura.
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