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Verona : Cierre, 2001
Moderators: Valentina Tosi
10 dicembre 2022 alle 08:06
Alle 22,39 del 9 ottobre 1963 una gigantesca frana di oltre 250 milioni di metri cubi di terra e rocce scese dal monte Toc nell’invaso realizzato grazie alla diga del Vajont, sollevando un’onda gigantesca che spazzò via tutto quello che incontrava nello scendere a valle e che cancellò letteralmente Longarone, provocando, oltre alle distruzioni, quasi duemila vittime. Fatalità, evento imprevedibile, negligenza? All’inizio si invocò l’imprevedibilità del fatto, ma ben presto vennero alla luce decisioni ed eventi antecedenti che smontavano facilmente questa ipotesi, anche perché la giornalista dell’Unità Tina Merlin aveva scritto della estrema pericolosità ricollegabile all’edificazione della diga già a partire dai primi lavori, avviati nel 1957, pur in assenza di una valutazione geologica di un territorio dalla particolare fragilità tanto che la montagna che sovrastava i paesi di Erto e di Casso si chiama Toc e toc indica nel dialetto locale qualcosa di guasto, di avariato. Infatti chi abitava lì era a conoscenza dell’instabilità di quel monte, già oggetto in passato di altre frane, e gli unici che sembravano non saperne nulla erano proprio gli azionisti e dirigenti della SADE Società Adriatica Di Elettricità che si erano messi in testa di costruire la diga più alta d’Europa in modo da realizzare un invaso gigantesco. Una perizia geologica in realtà esisteva, ma era stata predisposta ad arte per consentire di intraprendere un’impresa che altrimenti non sarebbe stata autorizzata. Purtroppo all’epoca c’era uno stretto legame di interessi fra il governo e la SADE, di cui beneficiavano entrambi, così che allegramente venivano saltate tutte le necessarie procedure, perfino per gli espropri dei terreni che sarebbero stati sommersi. La Merlin, che appoggiava i moti di protesta delle popolazioni locali, che temevano, a ragione, per la loro incolumità, fu addirittura accusata di diffondere notizie false e tendenziose atte turbare l’ordine pubblico, ma il Tribunale di Milano la assolse. Del resto tutta la zona aveva un equilibrio instabile, come testimoniato dalla colossale frana di 3 milioni di metri cubi, staccatasi dai monti Castellin e Spiz il 22 marzo del 1959, precipitata nel sottostante lago artificiale, provocando un’onda che superò la relativa diga di almeno 7 metri e fu solo per fortuna che ci fu un’unica vittima, un operaio che transitava lungo il percorso interessato dallo smottamento e il cui corpo non fu mai ritrovato. Dato che anche quell’invaso era opera della SADE questa cominciò a preoccuparsi, tanto più che una perizia geologica non di parte (uno degli estensori era il figlio del progettista della diga del Vajont) aveva evidenziato l’esistenza di un pericolo gravissimo, di cui si ebbe una prova il 4 novembre 1960 quando dal monte Toc si staccò una frana di 800.000 mc, con caduta nel lago artificiale e conseguente ondata alta una decina di metri. Non ci furono vittime, ma questo dimostrava che mano a mano che le acque dell’invaso salivano (si era già a 650 metri) le spinte sui fianchi tendevano a innescare fratture nel terreno. A questo punto si decise di abbassare il livello, tanto più che si era evidenziata una lunga crepa nel fianco della montagna. Tina Merlin, nell’occasione, scrisse un articolo per l’Unità che riportava fra l’altro queste parole:”Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l'esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli.”.
Si tentò allora di mettere in sicurezza l’impianto, ma era troppo tardi, perché una volta che si viene a gravare su un difficile equilibrio è inevitabile che, prima o poi, se ne paghino le conseguenze. Lo sapevano dunque quelli della SADE e la possibilità che avvenisse un disastro era notevolissima.
Considerata che era imminente la nazionalizzazione delle imprese di energia elettrica, con lauti guadagni per queste, dopo aver ridotto il livello del lago, si aumentò di nuovo, in modo da arrivare al collaudo necessario per la cessione allo stato, ben sapendo che in questo modo il rischio sarebbe aumentato in modo massiccio ed è così che si giunse a quella famosa notte del disastro, nonostante, monitorando la montagna, ci si fosse accorti del pericolo enormemente incrementato, a cui si cercò di rimediare abbassando di nuovo il livello. Era però troppo tardi e il resto lo conosciamo.
Il libro della Merlin è un atto di accusa, chiaro e incontestabile, contro chi per denaro, e ben sapendo che il suo comportamento poteva provocare vittime, volle procedere lo stesso, un reato non da omicidio colposo, bensì quasi da omicidio volontario, ibrido peraltro non contemplato dal nostro codice penale, così che l’unica accusa fu quella di omicidio colposo. Non vado oltre perché occorrerebbero chissà quante pagine; mi limito solo a evidenziare il valore di questo libro. Tina Merlin è brava, perché unisce allo stile giornalistico una impronta narrativa, grazie alla quale ben si comprende l’atmosfera e si prende consapevolezza della paura di questi montanari, schiacciati da un potere insensibile. Le qualità che ho potuto apprezzare nel romanzo La casa sulla Marteniga qui sono al servizio di un’inchiesta giornalistica su un fatto drammatico, così che è evidente la tensione in attesa di un evento pressoché certo. Leggere queste pagine fa male, perché l’avidità di certi uomini non ammette l’esistenza di sentimenti, in quella che può essere definita un’orgia del potere.
Da leggere senz’altro.
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