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Feltrinelli, 2019
Abstract: Otto Adolf Eichmann, figlio di Karl Adolf e di Maria Schefferling, catturato in un sobborgo di Buenos Aires la sera dell'11 maggio 1960, trasportato in Israele nove giorni dopo e tradotto dinanzi al Tribunale distrettuale di Gerusalemme l'11 aprile 1961, doveva rispondere di 15 imputazioni. Aveva commesso, in concorso con altri, crimini contro il popolo ebraico e numerosi crimini di guerra sotto il regime nazista. L'autrice assiste al dibattimento in aula e negli articoli scritti per il New Yorker, sviscera i problemi morali, politici e giuridici che stanno dietro il caso Eichmann. Il Male che Eichmann incarna appare nella Arendt banale, e perciò tanto più terribile, perché i suoi servitori sono grigi burocrati.
Moderators: Valentina Tosi
30 luglio 2022 alle 17:25
Adolf Eichmann, Obersturmbannfuhrer delle SS, l’organizzatore dei convogli ferroviari con cui gli ebrei erano trasportati nei campi di detenzione e di sterminio, non era in sé l’incarnazione del male, ma era un uomo normalissimo, magari mediocre e di poca sostanza, ma dedito al suo lavoro, del tutto incapace di porsi delle domande sulla legittimità morale dei propri atti, un ragioniere dello sterminio, senza coscienza, insomma non colui che ama compiere atti efferati, ma la rappresentazione della banalità del male. Catturato da un commando israeliano l’11 maggio 1960 in Argentina, dove viveva sotto falso nome, Eichmann fu trasferito, non senza difficoltà, in Israele per essere sottoposto a processo. Date le circostanze e nonostante che fosse passato più di un decennio dal processo di Norimberga il procedimento giudiziario ebbe enorme risonanza, con la partecipazione di giornalisti di quasi tutto il mondo e fra questi Hannah Arendt, ebrea tedesca sfuggita alle persecuzioni emigrando per tempo. Presente a tutte le udienze scrisse per il suo giornale (New Yorker) molti articoli, approfondendo le problematiche giuridiche, politiche e soprattutto morali che non erano solo attinenti il giudizio in corso, ma che erano alla base della figura dell’imputato e in generale di tutta la struttura nazista.
Ne emerge un quadro allucinante, perché i nazisti non sono considerati l’incarnazione dei peggiori istinti dell’uomo, ma degli individui qualunque, mediocri, in fondo anonimi, poco consapevoli o addirittura inconsapevoli dell’aspetto morale degli atti compiuti, ma inseriti in modo perfetto in un meccanismo del tutto infernale. In pratica chiunque, o comunque una persona del tutto normale, può diventare un aguzzino spietato se diventa parte di un apparato politico o anche poliziesco che lo stimola ad agire senza pensare. Ecco, il nazismo aveva reso i suoi cittadini del tutto incapaci di pensare, di porsi delle domande sulla moralità di ciò che essi facevano.
Il libro non piacque agli ebrei, volti a una demonizzazione di Hitler e del nazismo, anche perché la banalità del male non è stata una prerogativa solo della Germania nazista, ma potrebbe ripresentarsi in altri paesi, anche con ideologie diverse.
Il saggio, che è filosofico, ben rappresenta il concetto introdotto dalla Arendt, ma credo che più delle mie parole si pensi a una cosa semplicissima, e cioè che sarebbe stato lecito supporre che sparito il nazismo non dovesse più esistere il male istituzionalizzato, ma purtroppo non è stato così, e vi sono chiari esempi di non pochi totalitarismi in cui questa banalità si ripresenta, e, solo per citarne alcuni, il periodo dei khmer rossi in Cambogia, oppure la rivoluzione culturale cinese, ma purtroppo ce ne sono altri e altri ancora ne verranno.
Si rimane, più che sconcertati, scossi nel venire a sapere che “quel male”, quello con la Croce uncinata, che speravamo fosse l’ultimo e l’unico possa avere dei seguiti, cioè che possa ripetersi questa banalità del male, perché avevamo sempre considerati delle eccezioni anche i casi successivi, ma quando questi non sono più rari vuol dire che il male che è in noi potrebbe emergere prepotente e, istituzionalizzato, diventare lo scopo della nostra vita.
Da leggere, indubbiamente.
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