21 giugno 2022 alle 17:32
Dopo Bucoliche, prima opera di natura prettamente intimistica, e la successiva Georgiche, di carattere didascalico, Eneide è l’ultimo e più importante lavoro di quello che, senza enfasi, può essere definito il più grande poeta latino. Fu commissionata dall’imperatore Augusto che desiderava che le origini del suo grande dominio non trovassero riscontro in un popolo di rozzi bifolchi insediato secoli prima sul Tevere, ma che alla base ci fosse qualcosa di più importante, di mitico; è per questo scopo che nacque l’Eneide, un’opera che potrebbe sembrare la naturale continuazione, dal punto di vista dei perdenti, della famosa Iliade, e che fu scritta in un arco di tempo che va dal 31 a.C. al 19 a.C.. Con una notevole dose di fantasia Virgilio narra della fuga da Troia in fiamme di Enea, il figlio di Anchise, del suo peregrinare per mare in cerca di un nuovo lido in cui approdare fino a giungere alle coste del Lazio, diventando così di fatto il primo antenato del popolo romano.
Il poema, piuttosto corposo, si compone di dodici libri, dal primo in cui Enea assiste alla rovina di Troia e salpa con la sua flotta verso terre ignote, all’ultimo, in cui Turno, re dei Rutili, viene sconfitto in duello dall’eroe troiano, rendendo così possibile agli esuli di stabilirsi definitivamente nel Lazio. Per quanto ovvio, il capostipite di un popolo che diventerà padrone del mondo, e cioè Enea, progenitore putativo di Augusto, racchiude in sé le più alte doti, e cioè l’onestà, il coraggio, la giustizia, la lealtà, la pietas (intesa come devozione nei confronti delle divinità e rispetto degli altri uomini), la pazienza e un elevato senso civico, dai quali deriva l’esaltazione dei valori del cittadino romano, che le ripetute guerre fratricide avevano oscurato e che il primo imperatore si era imposto di far nuovamente trionfare.
L’Eneide, scritta in esametri dattilici, una metrica complessa, ma capace di rendere più gradevole l’opera all’ascolto, è stilisticamente perfetta ed esalta, oltre alle origini di Roma, l’abilità del suo autore, che fa ricorso a diverse figure retoriche, quali l’allitterazione, capace di aggiungere armonia ad armonia, e la difficile assonanza, rivelando, sempre che ce ne fosse bisogno, data la genialità di Virgilio, capacità tecniche ancor oggi ritenute eccezionali.
Tuttavia il fato volle che l’opera non potesse essere completata, perché l’autore, di ritorno da un viaggio in Grecia, giunto al porto di Brindisi, morì probabilmente per un colpo di sole. La leggenda vuole che, sentendo l’approssimarsi della fine, abbia raccomandato ai suoi compagni di studi Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto, ma i due avrebbero disobbedito, consegnando l’opera all’imperatore. Del resto, per quanto leggendo l’Eneide ci si accorga che si tratta di un lavoro non ultimato, la sua bellezza stilistica, la creatività profusa, la profondità di quanto esposto, tenendo presente la finalità, resta sempre un unicum di elevatissimo valore, alla pari con l’Iliade e l’Odissea. E di ciò se ne accorse Augusto, che già aveva avuto occasione di leggerne gran parte in anteprima, con Virgilio ancora vivente; l’imperatore ne fu talmente soddisfatto da farla diventare, ufficialmente, il poema nazionale. Era passato molto tempo da quando il poco ciarliero poeta mantovano si era rivelato con Bucoliche, riconfermandosi con Georgiche, ma nemmeno lui avrebbe potuto immaginare che quell’Eneide, a cui aveva dedicato il lavoro di gran parte della sua vita, l’avrebbe consacrato come il più grande fra i grandi, al pari del greco Omero, e che, come le opere di quest’ultimo, anche la sua ultima fatica sarebbe diventata materia di studio nei programmi scolastici.
Da leggere per chi non la conoscesse, da rileggere per chi l’ha studiata a scuola, perché l’Eneide è un’esperienza nuova ogni volta, sia la prima che le successive.
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