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Sellerio, 2021
Abstract: Venezia 1480. Tre ebrei bruciati in piazza, una giustizia che cede all’intolleranza. Una tragedia destinata a ripetersi in ogni tempo e luogo. Nel 1480, in un piccolo paese del trevigiano, un bambino sparisce nel nulla. L’archisinagogo Servadio e altri due ebrei vengono accusati di averlo ucciso per impastare col suo sangue le focaccine pasquali. Torturati e condannati a morte per infanticidio rituale, fanno ricorso e il processo si riapre davanti al Senato di Venezia. Boris da Candia, spia della Repubblica di San Marco, uomo di «inganno e di rapina», avventuriero levantino e violento, ma anche colto umanista, è investito di una missione segreta. Venezia è appena uscita da una guerra contro i turchi e dalla peste. Il malcontento si diffonde. Il francescano Bernardino da Feltre, con le sue prediche infuocate, fomenta nel popolo l’odio contro gli ebrei, perché il suo ordine religioso vuole sostituire i loro banchi dei pegni con quelli del Monte di Pietà. Il doge Giovanni Mocenigo, per motivi economici e di ordine pubblico, emana una bolla che proclama la tolleranza e impone il rispetto degli ebrei, cittadini laboriosi e fedeli alla legge, ma ciò non basta a moderare il livore plebeo istigato dal feroce predicatore. Boris da Candia, un Corto Maltese arguto e a tratti brutale, che frequenta palazzi e bordelli, nel corso delle sue indagini incrocia una maga, donna dalle grazie misteriose, che gli rivela particolari ignoti a tutti: «Il dettaglio è il crocevia dove il visibile e l’invisibile s’incontrano». Giovanni, un monello di strada, lo aiuta a districarsi. Ma è il dialogo con Servadio quello che lo segna più di ogni altro, perché l’archisinagogo, sapiente e mite, si rivela uomo di tale travolgente spiritualità da far vacillare il miscredente avventuriero, e questo genera in Boris una inaspettata sete di giustizia: «I popoli, non sapendo fare forte il giusto, chiamano giusto il forte». Ma che spazio hanno le ragioni dello spirito nella cieca inerzia della Storia? La scrittura musicale di Andrea Molesini scolpisce con maestria l’amara intensità emotiva della vicenda in un romanzo tra storia e invenzione. Boris è un personaggio che scopre di essere, a dispetto del proprio passato, la porta che mette in comunicazione due mondi, la commedia e la tragedia, che si intrecciano e fondono nel sempiterno spettacolo dell’azione, dove da sempre il male pubblico giunge alla casa di ognuno.
Moderators: Valentina Tosi
23 agosto 2021 alle 09:22
Accusati di aver rapito e ucciso un bimbo per impastare con il suo sangue le focacce pasquali, l’archisinagogo Servadio e altri due ebrei cedono alla tortura ammettendo di aver compiuto ciò che in effetti non hanno fatto. E proprio per questo, per l’ammissione di una colpa inesistente solo per evitare i tormenti, i tre fanno ricorso e il processo, conclusoso in primo grado nel luogo dove avrebbero commesso il reato, prosegue davanti al Senato di Venezia. In questa vicenda si inserisce Boris da Candia, un avventuriero anche umanista di cui si serve la Serenissima per eliminare uomini a lei ostili, oppure per spiare. E qui mi fermo, perché non intendo assolutamente svelare come procederà questo bellissimo romanzo e tanto meno la fine dello stesso.
Andrea Molesini precisa, prima dell’elenco delle numerose fonti, che il fatto di cui si narra è realmente accaduto; tuttavia molti personaggi, soprattutto Boris da Candia, sono esclusivo frutto di immaginazione. Se la vicenda di per sé è di notevole interesse, il pregio dell’opera va cercato ben oltre; certo non mancherà di appassionare la trasformazione di Boris da uomo di inganno e omicidio a essere consapevole dei suoi errori, impregnandosi di quella umanità che non gli è mai stata propria, in un lungo e anche faticoso cammino di vera redenzione. Ciò che però Il rogo della Repubblica è in grado di offrire come rilevante valore è l’onnipresente conflitto fra potere e giustizia e questo non solo allora, ma anche oggi, anzi in qualsiasi epoca. Le conversazioni di Boris da Candia con il carcerato archisinagogo Servadio, quella illuminante con Giacobbe Barbato che ritraendo la sua confessione fa cadere le assurde accuse contro gli altri incriminati e che per questo, affinché la sua decisione non possa essere formalizzata deve essere eliminato, sono un continuo riaffermare la violenza sulla giustizia di chi ha il potere, al punto che il sicario Boris, che pure non ha provveduto a uccidere come avrebbe dovuto, assistendo invece al suicidio volontario della sua vittima, afferma in un bordello “Questa notte un uomo mi ha ucciso con la sua bontà”. Se il potere non è mai giusto perché fa prevalere, a costo anche di condannare degli innocenti, la ragion di stato sulla verità, è altrettanto vero che la giustizia non può trionfare senza un suo effettivo potere. Eppure, l’ingiustizia tende a prevalere, perché chi l’amministra sono uomini, con tutti i loro difetti, il che fa dire a Boris “Sugli scranni dei giudici non siede nessuna autorità, ma solo un potere.”.
E’ un’amara, ma veritiera constatazione, di cui abbiano continue prove, tanto che la giustizia, quella asettica, rappresenta una chimera, un desiderio che quando sembra concretizzarsi sfugge di mano.
Scritto con grande cura, caratterizzato da un’ambientazione ricreata in modo impeccabile, con il tema dell’ostilità nei confronti dei diversi che sfocia nel grande tema della incompatibilità fra potere e giustizia, Il rogo della Repubblica è un gran bel romanzo storico e conferma le eccellenti capacità dell’ autore già riscontrate sempre nella produzione precedente.
Quindi si tratta di un’opera assolutamente meritevole di essere letta.
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