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Sellerio, 2020
Abstract: Una famiglia del Nord Italia, tra l’inizio di un secolo e l’avvento di un altro. La metamorfosi continua della specie, che nasce contadina, diventa proletaria e poi borghese, e poi chissà. L’esodo e la deriva, dalla montagna alla pianura, dal borgo alla periferia, dalla provincia alla metropoli. Il tempo che scorre, il passato che impasta il destino, la nebbia che sale dal futuro; in mezzo un presente che sembra durare per sempre, l’unico orizzonte visibile, teatro delle possibilità e gabbia dei desideri. È questo il paesaggio in cui vivono e muoiono i Sartori da quando il primo di loro fugge dall’esercito dopo la ritirata di Caporetto e incontra una ragazza in un casale di campagna. Fino ai giorni nostri, quelli di una giovane donna che visita la tomba del suo bisnonno. Quattro generazioni, dal 1917 al 2012, dal Friuli rurale alla Milano contemporanea, dalle guerre mondiali alla ricostruzione alla globalizzazione, dal lavoro nei campi alle scrivanie delle multinazionali. È circa un secolo, che mai diventa breve: per i Sartori contiene tutto, la colpa, la vergogna, la rabbia, la frenesia, la stasi. Sempre la lotta e quasi mai la calma, o la sensazione definitiva della felicità. Ma i Sartori non ne hanno bisogno, e forse non ci credono neppure nella felicità. Perché se ogni posto nel mondo è una merda, è meglio imparare a vivere, e stare lì dove la vita ci manda. Romanzo storico e corale, vasto ritratto narrativo del Novecento italiano, forse il primo di uno scrittore sotto i quarant’anni, il racconto dei Sartori affronta il fardello di un’eredità che sembra andata in malora. Se gli errori e le sfortune dei padri ricadono sui figli, come liberarsene? Esiste una forza originaria capace di condannare una stirpe alla solitudine? La risposta a queste domande è nella voce di un secolo nuovo, e nello sguardo di chi si accinge a viverlo.
Moderators: Valentina Tosi
31 gennaio 2021 alle 07:35
Leggo nella quarta di copertina dei giudizi entusiasti di Claudia Durastanti, una scrittrice e traduttrice, e di Marco Missiroli, pure lui scrittore, ma quello che mi colpisce di più è l’asserzione di quest’ultimo che paragona Prima di noi al grande romanzo americano, un paragone impegnativo con autori del calibro di William Faulkner, Philip Roth e Francis Scott Fitzgerald, che senza nulla togliere alle capacità letterarie di Giorgio Fontana sono di gran lunga a lui superiori. Sono state queste opinioni che mi hanno indotto a comprare il libro, nonostante la sua mole non certo trascurabile (896 pagine) e la finalità dello stesso di raccontare, attraverso quattro generazioni di una famiglia, le vicende italiane dalla rotta di Caporetto fino a quasi i giorni nostri. Certo le pagine sono tante e a maggior ragione le aspettative sono maggiori, anche se non è sempre detto che alla quantità si accompagni la qualità, perché intendiamoci, quando si realizza un’opera, non conta quanto si scrive, ma cosa e come si scrive. Il progetto di Fontana è stato senza dubbio ambizioso, nella consapevolezza di sperare di realizzare un romanzo sulla storia degli italiani che entrasse a far parte del patrimonio letterario nazionale a pieno titolo e a pieno merito. Dico subito che lo scopo è stato realizzato solo in parte, perché, accanto a pagine che si dilungano a narrare eventi di scarsa o modesta importanza se ne alternano altre in cui occorrerebbe approfondire maggiormente e non passare via velocemente. In particolare, il periodo della Resistenza è appena sfumato e non dovrebbe esserlo per la presenza notevole dei partigiani nella zona in cui è ambientato il romanzo, vale a dire il Friuli; invece si accenna, senbra quasi che ci sia il timore di prendere una posizione netta, forse giustificata dalla evidente volontà dell’autore di essere nell’opera apolitico. Peraltro, anche il periodo di lotte sindacali, che pur presenta un’ampia trattazione, sembra avulso dalla realtà, perché nell’epoca a riferimento c’ero e vivevo in un’atmosfera piuttosto complessa e pesante, quasi una premessa a quegli anni di piombo che sarebbero avvenuti di lì a poco. La scrittura non è certo greve e questo è un pregio di un romanzo che tuttavia non mi ha lasciato nulla dentro, nel senso che non c’è un personaggio memorabile con cui sia potuto entrare in sintonia. Ogni tanto ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una sorta di soap opera, per fortuna quasi subito fugata, ma ritornata poi prepotentemente alla ribalta nelle ultime duecento pagine, francamente noiose.
Prima di noi si lascia leggere, ma non paragoniamolo al Grande Romanzo Americano, ne uscirebbe a dir poco travolto.
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