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Il Conte di Montecristo - Alexandre Dumas

"Il Conte di Montecristo" di Alexandre Dumas edizione Feltrinelli
All'inizio ero spaventata dalla mole ma dopo aver letto le prime pagine, non ho più smesso. Un romanzo d'ingiustizia, vendetta ben congeniata, di riscatto e d'amore. La lettura risulta molto avvincente e scorrevole, tanto da leggere per ore e non accorgersi del tempo che passa. I capitoli non molto lunghi e i titoli che ne anticipano il contenuto aiutano nell'orientamento della trama. In fondo a questa edizione c'è l'elenco dei personaggi con le loro caratteristiche e i legami di amicizia e/o parentali che ho consultato spesso. Il finale risulta non chiarissimo ma si può perdonare.
Un classico che non può mancare.

Oblio e perdono - Robert Harris

Dalla penna dell’autore di Fatherland, un bellissimo romanzo distopico da cui è stato tratto l’omonimo film di grande successo mirabilmente interpretato da Rutger Hauer, è uscito questo libro che mi ha letteralmente avvinto dalla prima all’ultima pagina. Corre l’anno 1660 e in Inghilterra ritorna la monarchia dopo gli undici anni della repubblica di Oliver Cromwell, repubblica nata con la condanna a morte eseguita per decapitazione di Re Carlo I Stuart, a cui ora è subentrato il figlio Carlo II che vuole un taglio netto con il passato, perseguitando i ribelli e dando in particolare la caccia a quelli che hanno sottoscritto la sentenza grazie alla quale il padre è stato giustiziato. E’ così che vengono rintracciati quasi tutti i firmatari, che vengono poi condannati a morte, ma c’è chi riesce a fuggire, in particolare Edward Whalley e suo genero William Goffe. Non si nascondono in Inghilterra, ma riescono a salpare per l’America e ad arrivare là nelle nuove colonie. Sulle loro tracce il governo mette Richard Nayler, un autentico mastino, grato per l’incarico anche perché in tal modo conta di concretizzare una vendetta personale. I due uomini, seguaci del puritanesimo, per quanto aiutati dai confratelli, conducono una vita errabonda, fatta di paure e senza prospettive. Non vado oltre, perché se dovessi raccontare tutto farei un dispetto a chi intende leggere il romanzo e poi anche perché, per quanto dovessi cercare di essere succinto, finirei comunque per essere eccessivamente prolisso, circostanza certamente non idonea per una piacevole lettura a video.
Preferisco invece soffermarmi sui pregi dell’opera e sull’unico difetto, che lascio per ultimo.
La caccia all’uomo che intraprende Nayler e che durerà una ventina d’anni impone al romanzo un ritmo incalzante, con l’inevitabile desiderio del lettore di sapere le mosse successive; l’atmosfera non manca, anzi è ricreata in modo pregevole, con questi due uomini che sono in fuga senza concrete speranze di cambiare la loro sorte, in una tensione che a tratti sgomenta. Anche l’ambientazione è resa benissimo, con la descrizione del mondo dei puritani, della vita nelle nuove colonie, con i contatti non sempre pacifici con i nativi.
Pur senza dilungarsi nella descrizione della fisionomia dei protagonisti (i due uomini in fuga e il loro cacciatore)    l’autore riesce a ricreare l’aspetto di questi uomini, che varia mano a mano che passano gli anni, in un susseguirsi di eventi di cui progressivamente diventiamo partecipi.
La vicenda è veramente riuscita (Harris, in una nota iniziale, premette che è la libera ricostruzione di una storia vera, cioè la ricerca dei regicidi e in particolare di Edward Whalley e William Goffe, personaggi esistiti veramente e oggetto della caccia di Richard Nayler, protagonista che invece è del tutto inventato; i fatti, le date e i luoghi sono poi quelli in cui si è svolta questa caccia implacabile). Insomma, siamo in presenza di un romanzo storico basato su fatti realmente accaduti e forse anche per questo è in grado di avvincere così tanto. La conclusione poi non è per nulla scontata ed è la classica ciliegina sulla torta.
E l’unico difetto? L’unico difetto è che arrivati a pagina 444, l’ultima del libro, la lettura purtroppo termina, nonostante la disponibilità a conoscere eventuali ulteriori sviluppi.
Da leggere.

Il tribunale del Duce - Mimmo Franzinelli

Il Tribunale speciale del fascismo, fortemente voluto, oltre che dal duce, anche dall’Ovra, l’organizzazione volontaria per la repressione dell’antifascismo, entrò in funzione il primo di febbraio del 1927 e continuò a operare fino al 25 luglio del 1943. Superati, non senza patemi d’animo, gli effetti nefasti del delitto Matteotti, il regime vide la necessità di stroncare qualsiasi velleità di oppositori ormai clandestini per ottenere, se non il pieno consenso del popolo italiano, almeno la possibilità di dominare senza il benché minimo ostacolo e la nuova istituzione giuridica, alla cui guida erano chiamati fascisti di comprovata fede, andava bene allo scopo, contribuendo ad alimentare un’atmosfera di sospetti e di terrore tipica di tutti i totalitarismi ed indispensabile per potersi reggere. Nel solo primo decennio giudicò ben 10.693 imputati, assolvendone tuttavia 7.581 e irrogando pene, compresa quella di morte, per la differenza (76 furono le condanne a morte, di cui 58 eseguite). Non si creda tuttavia che questo tribunale avesse piena autonomia decisionale, perché in effetti in non pochi casi concertò con il duce condanne e relative pene.
Restavano tuttavia in mano al collegio giudicante ampi poteri, quasi sempre sfruttati a vantaggio personale, il che accentua il senso di disgusto che prende il lettore nel leggere questo interessantissimo saggio di Mimmo Franzinelli. La circostanza che tuttavia più sgomenta è che, a liberazione avvenuta, con il decreto di amnistia di Palmiro Togliatti i componenti del Tribunale speciale non solo non ebbero a patire conseguenze penali, ma furono reintegrati nella magistratura ordinaria, mentre i loro condannati continuarono a essere trattati come sovversivi. Si spiega così l’immaturità di un popolo incapace di fare i conti con il proprio passato e così pronto a ricadere nei medesimi errori. Il saggio di Franzinelli è ben strutturato e aiuta non poco a comprendere come era questo tribunale e come ebbe a funzionare. Di capitolo in capitolo ( Una giustizia speciale, I tre presidenti, Magistrati in camicia nera, I processi per gli attentati a Mussolini, Plotone d’esecuzione, Gli irriducibili, Delitti d’opinione, Segreti e retroscena, Donne alla sbarra, Il Tribunale in guerra e Soppressione ed eredità del Tribunale speciale) si ha un quadro completo del famigerato Tribunale speciale e di certo non basato su illazioni, ma supportato da prove documentali come sempre espressamente citate in appendice.
Quel che stupisce però nel libro è che alla completezza della disamina e delle notizie si accompagna una narrazione organica e chiara, tale da rendere la lettura veramente gradevole, elemento non frequente nel caso di saggi storici e che impreziosisce notevolmente l’opera.

Senilità - Italo Svevo

Secondo romanzo, dopo Una vita, Senilità venne dato alle stampe nel 1898 per i tipi della Ettore Vram. Tuttavia, non era sconosciuto al pubblico, almeno quello locale, perché era stato pubblicato in 79 puntate (dal 15 giugno al 16 settembre 1898), peraltro con parecchi refusi, sul quotidiano irredentista triestino “L’Indipendente”. In breve è la storia di Emilio Brentani, un uomo di poco conto, incapace di prendere le decisioni che contano, infelice per aver tanto bramato l’amore e il piacere senza averli però raggiunti. In lui ormai vive una sorta di rassegnazione e di abulia, tipica dell’uomo che si lascia prendere e trasportare dal vento dell’esistenza, chiuso nei suoi ricordi, atteggiamento questo proprio di una vecchiaia spirituale, da cui appunto il titolo Senilità. Detto così sembrerebbe un romanzo con una trama pressoché assente, ma non è così; ovviamente non aggiungo altro, perché ben mi guardo di togliere a chi interessato il piacere della lettura. Svevo, che rammento non è il cognome dell’autore, che si avvale di uno pseudonimo, perché in effetti si chiamava Aron Hector Schmitz , e parlava indifferentemente in tedesco e in italiano, laddove l’italiano è una lingua mutuata dal triestino, non nutre simpatia nei confronti di Emilio Brentani, ma si fa supportare da una nota ironica in quanto per certi aspetti il personaggio principale assomiglia all’autore stesso, costretto a un lavoro, quello di banca, che non gli piace e che pratica solo per necessità economiche. Pur tuttavia, al di là di quello che può essere lo spunto autobiografico, Senilità ha uno scopo ben più ampio, mettendo ben in evidenza le frustrazioni, l’insoddisfazione dell’intellettuale della piccola borghesia, dividendo la società fra lottatori, che cercano di emergere, e contemplatori, che si limitano a essere spettatori del palcoscenico su cui si svolge la commedia dell’esistenza. E nel romanzo queste due classificazioni sono ben rappresentate da quattro personaggi, quasi a voler dimostrare che l’autore ha saputo ben osservare, senza intervenire nel ciclo della vita, rientrando quindi nella categoria dei contemplativi.
Da ultimo una notizia e cioè che dal romanzo nel 1962 è stato tratto un film, con lo stesso titolo, diretto da Maro Bolognini e interpretato da un eccellente Anthony Franciosa, nella parte di Emilio Brentani, nonché da Claudia Cardinale, Betsy Blair e Philippe Leroy.
Per quanto superfluo il consiglio è senz’altro di leggere questo libro.

Lucrezia Borgia - Maria Bellonci

Corre l'anno 1939 quando esce in lingua italiana, per i tipi della Mondadori e in lingua inglese per i tipi della Phoenix, Lucrezia Borgia, un'ampia ed esauriente biografia che va dal 1492, allorché il padre Rodrigo viene eletto pontefice, alla sua morte, avvenuta nel 1519, probabilmente per setticemia. Si tratta di un'opera monumentale, frutto di un lungo periodo di ricerche nei più svariati archivi, ed è la prima di Maria Bellonci, un esordio clamoroso, visto il successo da subito incontrato, e che fra l'altro le valse il Premio Viareggio, e la sua diffusione in moltissimi paesi del globo. Già da allora si delineava chiaro lo stile di questa storica e narratrice piemontese, uno stile che, pur non scostandosi dalle risultanze emerse dai carteggi, non solo non è mai greve, ma addirittura avvincente, tanto lega il lettore al filo del discorso con una continuità che non viene mai meno, con un ritmo per lo più incalzante che lascia tuttavia lo spazio per ponderate riflessioni e per pagine più quiete, in cui si sviluppa un linguaggio di soffusa poeticità che dà respiro a un lavoro innegabilmente complesso. In buona sostanza Maria Bellonci è in grado di narrare la storia, intessendo una trama senza voli di fantasia, se non per le personali considerazioni in ordine ai vari protagonisti.  Che Lucrezia Borgia di per sé sia un personaggio di estremo interesse è fuor di dubbio ed è stata vista dagli storici via via come diabolica avvelenatrice, soprattutto per quelli che all'epoca trovavano vantaggiosa questa definizione, oppure come fanciulla infelice perché piegata alla ragion di stato, fondamentalmente innocente, ma purtroppo succube del padre e del fratello Cesare. Al primo, come scrive Maria Bellonci, somigliava nel suo modo gioioso d'aver fede in tutte le promesse del futuro; ma si può anche aggiungere che ne era la figlia anche per una innata carnalità, di cui tuttavia all'epoca nessuno si meravigliava; abile nel condurre anche una signoria, differiva dal genitore e dal fratello in quanto immune da una smania di grandezza volta a costituire uno stato dominato dai Borgia, anche in danno della Chiesa stessa. E per far questo, non esitavano a ricorrere alle arti diplomatiche per legare, tramite uno sposalizio, questa o quella signoria, così come utilizzavano metodi più spicci, come l'eliminazione fisica di un avversario, pratiche entrambe che, tuttavia, erano in quel periodo storico assai diffuse. A questo punto è indubbio doversi chiedere chi in realtà sia stata Lucrezia Borgia? Fra accusatori e difensori dei Borgia Maria Bellonci si pone in una prospettiva diversa, come appunto risulta da alcune righe di una Nota generale posta al termine dell'opera. Scrive: Scrivendo questa storia, ho inteso non tanto di rifare il secolare processo ai Borgia, quanto di rappresentarli nel loro modo quotidiano, caldo e naturale di stare al mondo, in una prospettiva umana di individui, non mostruosa di criminali. E poiché ho preso a narrare particolarmente di Lucrezia Borgia, aggiungerò che ella è stata di tutta la famiglia la più maltrattata, e dagli accusatori e dai paladini: un vero destino da donna. 
E' così che, se Rodrigo e Cesare Borgia sono particolarmente invisi – ma come ho scritto prima il loro comportamento era diffuso all'epoca - , a Lucrezia per il solo fatto di essere donna e di quella famiglia vengono da un lato attribuiti i più nefasti crimini e dall'altro invece la si evidenzia come una succube, un essere privo di personalità, appunto a conseguenza del suo essere femmina.
Non era né l'una, né l'altra, era invece un essere pieno di vitalità che nella sua esistenza ebbe da scontare quella parentela che tanto spaventava, perché le mire di Cesare, sostenute da suo padre, non erano limitate territorialmente, ma abbracciavano idealmente l'intera Italia. 
Maria Bellonci è riuscita in un difficile compito, cioè rendere giustizia alla storia e allo stesso tempo alla dignità di una donna che aveva l'unico torto di appartenere alla famiglia Borgia.
In una narrazione senza respiro, minuziosa nei fatti come nelle descrizioni dei personaggi e  delle atmosfere, emerge la figura di una donna che in pratica ebbe a conoscere un po' di felicità solo dopo la scomparsa del padre ed il crollo dei sogni di conquista del fratello. Lei che fu sposa, per breve tempo, di Giovanni Sforza ( i due non si amavano) e poi del duca di Bisceglie, il suo primo autentico amore, ucciso dai sicari di Cesare - il che potrebbe avvalorare le voci di un loro rapporto incestuoso, ma sono solo mere supposizioni, perché di certo non vi è nulla di concreto – troverà la pace e l'appagamento come donna  nel rustico, ma suo modo fascinoso Alfonso d'Este. Ferrara diventerà per lei la seconda patria e piano piano riuscirà, se non a farsi amare, almeno a farsi rispettare dai suoi cittadini.
Quanto alla tresca con il cognato Francesco Gonzaga viene di molto ridimensionata, nel senso che se si trattò di vera attrazione (lei bellissima, lui non bello, anzi bruttino, ma dotato di una particolare personalità) il tutto si risolse in una schermaglia amorosa di tenore platonico, all'epoca peraltro molto in voga.
Grazie alle ricerche e ai documenti reperiti negli archivi, di Lucrezia si viene a sapere pressoché tutto: dei favolosi vestiti che indossava, della sua preziosa collezione di monili d'oro e di pietre preziose e perfino dei componenti la sua corte personale.
Fra guerre combattute e battaglie diplomatiche emergono, escono dall'ombra, per poi infine ritornarvi, personaggi famosi, come l'Ariosto, il Bembo, lo Strozzi, tutti letterati che le corti cercavano di attrarre e che Lucrezia annoverò fra i suoi frequentatori.
Ebbe molti figli, fra cui l'erede al ducato, ma i parti sfibrano, stancano una donna, la indeboliscono e così a 39 anni, alla sua ottava gravidanza, ebbe un parto prematuro; la bimba sopravvisse, la madre penò ancora due giorni fino a esalare l'ultimo respiro. E qui Maria Bellonci si supera, con le ultime righe che raggiungono vertici sublimi. Lucrezia rivede la sua vita, la sua partenza da Roma per Ferrara:  Forse a questo rombo che sembra arrivare da un tempo remotissimo, da un'eternità umana, con una voce che ha tanto di magia quanto di antica incuorante serenità, i terrori finivano di sbandarsi per dar luogo ad una stanchezza lunga, filata, vicina alla pace. Era venuto il momento di non aver più paura. Lucrezia guardava in viso suo padre come al momento della loro separazione, quel nevoso mattino d'Epifania. E come allora sospirò appena, quando qualcuno disse che bisognava partire.
Ecco, senza volerne fare un'eroina, non vorrei che l'epitaffio dicesse Qui giace Lucrezia, sposa e madre esemplare, ma semplicemente Qui giace Lucrezia, che amò la vita senza toglierla ad alcuno.
Il libro è sicuramente stupendo, un grandioso affresco rinascimentale dipinto con mani sapienti ed equilibrate.

Marco Polo - Maria Bellonci

Come certamente noto Il Milione è un saggio biografico scritto da Rustichello da Pisa sotto dettatura di Marco Polo allorché entrambi, presumibilmente nel 1298, si trovavano prigionieri di guerra dei genovesi.
Vi si descrive il viaggio nel lontano oriente compiuto dalla famiglia mercantile veneziana dei Polo (Marco appunto, il padre Niccolò e lo zio Matteo), un itinerario che appassionò subito i lettori del XIII secolo e che ancor oggi affascina.
Stupisce anche l'interesse al riguardo di Maria Bellonci, legata com'è stata al Rinascimento italiano e alla vita di corti ben diverse da quelle che si trovano nel Milione, ma forse lo stupore ha una spiegazione nell'ascendente che questo libro ha sempre manifestato nei lettori. Quel mondo quasi sconosciuto, così diverso dall'Italia medievale, quegli spazi infiniti, un grandissimo sovrano come Kublai Khan, autentico signore e padrone di quel mondo sono aspetti che giustificano ampiamente il successo di quel libro, fonte di ispirazioni di altri testi successivi, come Le città invisibili di Italo Calvino.
In questo Marco Polo Maria Bellonci rilegge quest'opera e ci racconta, con il suo ineguagliabile stile, questo viaggio avventuroso nell'impero del Gran Khan, partendo appunto dal momento in cui Marco Polo, prigioniero dei genovesi dopo la sfortunata battaglia di Curzola, detta questa sua esperienza a un altro detenuto, Rustichello da Pisa. E se Il Milione ha una nascita alquanto originale, altrettanto si potrebbe dire di questo libro della Bellonci; infatti l'origine è una sceneggiatura per il Marco Polo televisivo, trasmesso a puntate nel 1982; da questo lavoro in funzione del piccolo schermo la scrittrice piemontese ha tratto appunto il suo Marco Polo.

Indubbiamente diverso dai suoi testi famosi, quali Lucrezia Borgia, Segreti dei Gonzaga e Rinascimento privato, mantiene tuttavia il rigore di una biografia strettamente attinente alla vita del protagonista, con una felice trasposizione narrativa che rende il tutto assai più scorrevole e di grande gradimento da parte del lettore.

Senza essere didascalico, è caratterizzato dalla capacità di lasciare alla fantasia di chi legge immaginare, vedere con i propri occhi ciò che opportune e mai troppe indicazioni rendono possibile.

Certo non ci troviamo di fronte a personaggi come Lucrezia Borgia o Isabella d'Este, ma quel mondo lontano, che solo da non molto tempo ci sembra più vicino, rivive in un'aureola di meraviglia e mistero che non sgomenta, ma attrae irresistibilmente. Il palazzo estivo di Kublai Khan, costituito da una miriade di tende, l'incontro con i Lama del Pamir e con i mitici pescatori di balene, il rito del matrimonio tra bambini morti emergono da queste pagine, si offrono prepotentemente per farci capire un mondo che all'epoca appariva talmente lontano dall'occidente da essere considerato inabitabile e inabitato, e invece anche là si nasceva, si viveva, ci si amava, si combatteva e si moriva, né più né meno come in ogni angolo di questa terra, a ogni latitudine, in ogni epoca. Se la distanza geografica era immensa, Marco Polo fece sentire vicini gli abitanti di quelle terre lontane e Maria Bellonci ha saputo, in questa sua trascrizione, mantenere lo spirito dell'esploratore veneziano, la cui presenza, pur se discreta, è quella di un uomo che vuole conoscere, desidera sapere, è pronto a tendere un mano per innalzare un ponte ideale fra Occidente e Oriente.
Da leggere, senza dubbio.

La notte della cometa - Sebastiano Vassalli

Dino Campana nacque a Marradi il 20 agosto 1885 e morì a Scandicci il 1° marzo 1932.
La sua fu una vita travagliata, errabonda, con ogni probabilità del tutto infelice, un'esistenza al di fuori di ogni canone, con frequenti ricoveri in manicomio.
Rifiutato di fatto dalla madre, tollerato dal padre, emarginato dai suoi compaesani che lo consideravano “il matto”, osteggiato dai letterati dell'epoca, non è difficile comprendere come Dino Campana sia passato da una naturale predisposizione (uno zio era pazzo e lo stesso genitore aveva trascorso un breve periodo in una clinica per malati mentali) alla malattia vera e propria, diagnosticata dallo psichiatra Carlo Pariani in ebefrenia, una forma acuta e particolarmente grave di psicosi schizofrenica.
Ma Dino Campana era veramente un alienato mentale e, se lo era, quali furono le cause? E' questo che si deve essere chiesto Sebastiano Vassalli quando iniziò ricerche in proposito, ultimate le quali scrisse questo libro, una vera e propria biografia del poeta di Marradi che spesso sconfina nel romanzo, nell'indagine storica, nell'analisi comportamentale, e che non solo consente di avere un'idea abbastanza esatta dell'uomo Campana, ma anche una maggior comprensione dei Canti Orfici, il suo poema, il riflesso di una persona sola e senza speranza che si rifugia nell'unica soluzione possibile: uno stato di dormiveglia in cui il sogno è la valvola di sfogo per fuggire da una realtà intollerabile.
Rifiutato da tutti, più volte internato in manicomio, appare un'immagine del poeta simile a un anarchico errante, ma che non distrugge, non contesta, bensì rifiuta quel mondo che non lo vuole fino ad autodistruggersi, non prima però di aver alzato il suo canto di dolore e di libertà, quei Canti Orfici, prima osteggiati da tutti e poi, molto più tardi, dopo la sua scomparsa, osannati.
Si potrebbe dire che Campana presenta uno sdoppiamento della personalità: l'uomo, emarginato dalla società, che vive alla giornata seguendo improvvisi impulsi, e il poeta, o meglio la poesia. Come precisa Vassalli ci sono scrittori di poesie, ma Dino non lo è, perché in lui vive la poesia e finisce con il diventare la poesia stessa, una poesia onirica. Così Campana diventa un mezzo, una voce attraverso la quale la poesia parla, uno strumento di cui egli stesso è artefice e succube, è l'unica vita possibile che gli è rimasta e nulla ha più senso dopo il completamento dei Canti Orfici, un'opera che per l'autore è un volo senza tempo, la misura dell'esistenza di un uomo a cui è stato reso impossibile vivere da uomo.
Vassalli scrive “Ma forse è proprio vero che i poeti appartengono ad una specie diversa, «primitiva», «barbara», da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dell'araba fenice. I poeti autentici, dico: non i letterati o gli scrittori di poesie, ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri”. E' forse il più bell'omaggio a Campana, ma non è gratuito, è una valutazione ragionata, che mi trova d'accordo.
E i Canti Orfici diventano così la giustificazione di un'esistenza invivibile, quasi un'altra vita, autonoma, ma immortale.
Vassalli ha inoltre il pregio di inquadrare il personaggio nella società dell'epoca, con degli spaccati precisi e fluenti di non pochi ambienti, da quelli di paese ai letterari, dagli ambienti universitari alla triste condizione dei ricoverati in manicomio, un lavoro preciso - si potrebbe definire di cesello – che aiuta molto a comprendere la figura di Campana, forse un originale che non sarebbe mai impazzito se fosse stato accettato e rispettato come tale.
Avremmo avuto così un Dino Campana diverso e Sebastiano Vassalli avrebbe potuto scrivere questo libro solo con l'estro della fantasia, come del resto precisa “Ma se anche Dino non fosse esistito io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest'uomo meraviglioso e «mostruoso», ne sono assolutamente certo. L'avrei inventato così” .
Il grande merito dell'opera è quella quindi di una ricerca della verità attraverso la quale comprendere Dino Campana e, soprattutto, i Canti Orfici.
Vassalli è riuscito a portare a termine un'impresa quasi titanica, con la pazienza e la meticolosità dello storico, unite a un grande amore per la poesia, senza il quale non avrebbe potuto concludere nulla, rimanendo attinente ai fatti, sviscerandoli, interpretando anche, ma senza inventare nulla.
Dino Campana è talmente unico che non c'è bisogno di creatività per narrare della sua vita non vita; quel che occorre, invece, è il rispetto, la pietà per l'uomo e appunto l'amore per la poesia, caratteristiche che a Vassalli di certo non mancano.
Il libro termina con un racconto di grande effetto: Natale a Marradi, relativo all'ultimo Natale trascorso da Dino Campana nel paese natio insieme a Sibilla Aleramo.
E' la degna conclusione di un'opera di grande valore non solo storico, ma anche letterario.

Il Corsaro Nero - Emilio Salgari

Emilio Salgari potrebbe essere definito un narratore compulsivo, tutto teso durante il giorno, e spesso anche la notte, a scrivere i suoi romanzi, ma il motivo di questa intensa produzione letteraria era molto meno nobile ed era dovuto alla necessità di incassare denaro per mantenere la sua famiglia, per fronteggiare le costose spese per le cure della moglie quando iniziò a dare i primi segni di follia e infine quando dovette essere rinchiusa in un ospedale psichiatrico. Fra l´altro questa frenetica attività, che affrontava fumando di continuo e alimentandosi soprattutto con del marsala, derivava anche dal contratti capestro (minimo tre libri l´anno) che aveva stipulato con gli editori. Poco considerato all´epoca negli ambienti letterari fu rivalutato molti anni dopo e gli venne riconosciuta la straordinaria capacità di scrivere opere adatte soprattutto ai ragazzi, ma che potevano interessare anche gli adulti. Parecchi anni fa i suoi libri furono fra le mie letture preferite, in particolare Il Corsaro Nero, considerato il suo romanzo migliore. Del resto vi aveva profuso tutta la sua immensa fantasia, perché Salgari scriveva della Malesia e dei Caraibi senza mai averli visti, chino sul foglio che andava riempiendo, fra una boccata di fumo e un sorso di marsala. Eppure, riletto al giorno d´oggi, Il Corsaro Nero è ancora in grado di interessare un anziano come me, ma anche i ragazzini abituati a giochi computerizzati e che raramente sanno chi sia Emilio Salgari. Del resto la trama, inserita nella guerra condotta da Francia e Inghilterra contro la Spagna, ricorrendo a navi corsare, è una di quelle che non può non avvincere, con la spedizione per assaltare Maracaibo, con la figura del Corsaro Nero, Emilio di Roccabruna, signore di Ventimiglia, impegnato a vendicare la morte del fratello maggiore, con una serie di tranelli, di tradimenti, di scontri e perfino con una parentesi d´amore, che però non si conclude felicemente. Il piatto forte è la spedizione contro Maracaibo, con l´attraversamento della foresta vergine, con immancabili incontri con animali feroci e indigeni antropofagi. Ci sono indubbiamente delle ingenuità, i personaggi sono stilizzati, o tutti buoni o tutti cattivi, ma l´opera nel suo complesso non è diseducativa e ha il pregio di attivare la fantasia dei ragazzini che la leggono. Sotto questo aspetto è senz´altro preferibile a certi spettacoli insulsi propinati dalla TV proprio agli adolescenti del giorno d´oggi e quindi la lettura è senz´altro da me consigliata, consapevole che potrebbe anche interessare persone di una certa età.

L'orsacchiotto - Georges Simenon

Il professor Jean Chabot, medico ginecologo, è un professionista affermato, con una clinica di proprietà e un incarico all´università. Dovrebbe, pertanto, essere un uomo appagato, ma non lo è, perché conduce un´esistenza di assoluta monotonia, fatta di clinica, casa e amante. E´ un individuo incapace di relazionarsi con passione con gli altri, compresi i suoi familiari e anche la segretaria, ultima delle amanti in ordine di tempo. Ciò nonostante tutto sembra procedere regolarmente in questo percorso esistenziale in cui l´abitudine regna sovrana. Come chiuso in un bozzolo vive senza particolari entusiasmi e patemi d´animo, in un un crescendo di monotonia di cui pare non accorgersi fino a quando apprende di una giovane suicida ripescata nella Senna, una ex inserviente della clinica con cui aveva avuto un amplesso fugace una notte e che gli era sembrata, semi addormentata come lo fu in quell´occasione, un orsacchiotto nel letto di un bimbo. Se i motivi del tragico gesto non erano noti, certa era la sua gravidanza, giunta al quarto mese, di cui con ogni probabilità era da ritenersi responsabile Chabot. In un´altra persona sarebbe subentrato un senso di rimorso, nel nostro professore invece si incrina qualcosa, comincia a fessurarsi quel bozzolo di certezze in cui è rinchiuso. Inizia così una progressiva discesa all´inferno, contraddistinta da tanti piccoli episodi, come un´incertezza nel corso del travaglio di una partoriente, di cui il medico non trova ragione senza darsi pace, fino a quando si rende conto di quanto la sua vita sia insoddisfacente. Incapace di un effettivo trasporto verso i suoi familiari e addirittura anche verso la sua sua segretaria e amante comprende l´inutilità della sua esistenza, consapevole che quella posizione di prestigio raggiunta con la sua professione non può assolutamente garantirgli il piacere di vivere. Non vado oltre, per non togliere al lettore il piacere di una lettura che lo porterà, assai interessato, a un finale logico, anche se in un certo senso imprevisto.
Con un personaggio come Chabot e con una trama così Simenon, abilissimo nella fine analisi psicologica, è andato sicuramente a nozze e in effetti non si possono che apprezzare i vari approfondimenti. C´è però anche un altro piano di lettura, non infrequente nelle opere di Simenon, e cioè la condanna di una borghesia falsa e vacua, una classe sociale che lo scrittore belga, nonostante ne sia parte, francamente detesta.
Per il resto ritroviamo le consuete note positive relative alle descrizioni dei luoghi e alla capacità di ricreare, senza sbavature, la giusta atmosfera.
Quindi, la lettura, sebbene non facile, è indubbiamente consigliata.

Remount blue - David Ross Brower

Mi sono imbattuto in questo titolo quasi per caso, perché ero alla ricerca di un saggio storico che parlasse degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale in Italia, incuriosito peraltro da questa decima divisione di fanteria americana da montagna che ho immaginato fosse un corpo analogo a quello dei nostri alpini.
La narrazione è opera di David Brower, capitano dell´86° battaglione, che diaristicamente parla della difficile avanzata fra il gennaio e il maggio del 1945, in epici scontri con le forze tedesche dalla Linea Gotica fono all´ultimo tratto settentrionale del Lago di Garda. Si ripercorrono così, giorno dopo giorno, gli itinerari della cacciata dell´invasore germanico, conquistando una dopo l´altra, con scontri sanguinosi, le cime degli Appennini, per poi scendere nella pianura padana e attraversare il Po su dei barchini nei pressi di San Benedetto Po. I combattimenti sono riportati con scrupolo e credo che sia stato lasciato ben poco spazio alla fantasia. C´è un´alternanza di giorni di riposo e di relativa quiete, e di altri in cui è palpabile l´orrore della guerra, in particolare per l´ultima battaglia, notevolmente sanguinosa, avvenuta a Torbole, la bella cittadina presso Riva del Garda.
Va dato atto all´autore di essere riuscito a ricreare ambienti e atmosfere con estrema semplicità, dando voce ogni tanto ai protagonisti superstiti, in un quadro generale che ben rappresenta la guerra di questa divisione specializzata.
Nutrivo il timore che sopravvenisse un senso di noia e invece la narrazione limpida, priva di fronzoli, consente una lettura piacevole e veloce. A completamento dell´opera c´è poi un consistente reportage fotografico realizzato da Robert A. Rocker fotografo del 3° battaglione della X divisione da montagna. Si tratta di una testimonianza preziosa che integra nel migliore dei modi la narrazione di Brower.

Scontenti - Marcello Veneziani

Ho trovato questo saggio pieno di spunti di riflessione. Il libro è ricco di citazioni di autori e filosofi che, nel passato e oggi, si sono confrontati col tema dell'infelicità. Ma ho trovato particolarmente acuta la parte dell'analisi del mondo contemporaneo. Veneziani, che ha una formazione giovanile di destra, lega l'origine della scontentezza epocale che stiamo vivendo non solo a ragioni individuali/esistenziali (presenti da quando esiste il genere umano), ma soprattutto ad un luogo (l'Occidente che sta implodendo da un punto di vista culturale/ideologico) e ad un tempo (oggi), in cui i poteri forti - economici, politici, sociali - sembrano comunque aver sottoscritto una forma di patto tacito, in cui creare un'umanità sempre insoddisfatta, incapace di canalizzare questo scontento in una dimensione collettiva. Un'analisi inclemente, esposta con una notevole ricchezza lessicale, che lascia comunque spazio ad una speranza: lo scontento è una stagione transitoria (se lo vogliamo). E' sufficiente recuperare il senso del limite e ridare impulso alle nostre facoltà intellettuali e spirituali, anestetizzate nella società tecno-nichilista in cui viviamo. Riporto qui alcune delle frasi che mi trovano perfettamente concorde: "Si muore non per un incidente, un sopruso o un'inefficienza del sistema, ma perché siamo mortali, era previsto in partenza" (pag. 159), "La via spirituale ci libera dallo scontento, tramite il passaggio di piano, l'apertura d'orizzonte, il rito e la catarsi. Ma soprattutto è capacità di distaccarsi: guardarsi dall'esterno, vedere lo scontento da fuori e dall'alto, da vicino e da lontano" (pag. 169). Un libro che fa riflettere e ... riflettere fa bene

Baci a occhi aperti. La Sicilia nei racconti di una vita

In una nota all’inizio del libro l’autore spiega che lo stesso è nato dalla richiesta di alcuni lettori, richiesta che lo ha lasciato perplesso avendo già scritto molto sulla Sicilia e che comunque ha ritenuto di esaudire mettendo insieme, nel modo più ordinato e leggibile, quanto aveva fino a ora dato alle stampe, ma togliendo qualcosa e aggiungendo qualcos’altro. Inoltre fornisce una spiegazione dello strano titolo, Baci a occhi aperti, cioè i tanti baci che ha dato alla Sicilia costringendosi a non chiudere gli occhi, assaporandone il piacere e – aggiungo io – non tacendo quegli aspetti che positivi senz’altro non sono.
Va anche rilevata l’onestà nell’indicare sempre in questa nota da quali libri e pubblicazione ha tratto i testi. In particolare riscontro che due da me sono già conosciuti avendoli a suo tempo letti e cioè In Sicilia e L’isola senza ponte, mentre non avevo ancora preso in mano, peraltro ripromettendomi di farlo quanto prima, Sicilia, la fabbrica del mito.
Pezzi aggiunti e altri tolti nulla tolgono alla valenza di questo collage di saggi sulla Sicilia, una carrellata completa su questa terra straordinaria e sui suoi altrettanto straordinari abitanti, nulla tacendo, come già ho detto, sulle loro virtù e sui loro difetti, soprattutto per questi ultimi che costituiscono una tara che si portano dietro da parecchi anni, anzi da secoli, e che sono un freno a qualsiasi ipotesi di sviluppo in senso economico. In particolare viene ancora una volta rimarcata l'immagine di un popolo dalla natura irredimibile (come scriveva Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo), al pari del paesaggio su cui in perfetta sintonia si muove, personaggi di una commedia della vita dalle infinite rappresentazioni, uomini e donne, in perenne contraddizione con ciò che è e che non dovrebbe essere e con ciò che non è e che invece dovrebbe essere. Sembra quasi impossibile questa discrasia in una terra che ha dato i natali a eccellenze come Luigi Pirandello, Leonardo Sciascia, Tomasi di Lampedusa, tanto per citarne solo alcuni, ma forse ciò è possibile perché dalle contraddizioni può nascere quella mente che vede oltre l’apparenza e scorge anche il percorso del futuro prossimo. 
Lo stile di Collura è quello solito, dove il solito non deve essere considerato frutto di una valutazione restrittiva, ma semplicemente una conferma di quelle che sono le qualità espositive di un autore il cui livello di cultura è indubbiamente assai elevato, circostanza tuttavia che non appesantisce lo sviluppo dei concetti espressi, che anzi sono da apprezzare per una completezza non disgiunta da un gradimento di chi legge.

La morte delle sirene - Ben Pastor

Ennesimo appuntamento con il comandante Elio Sparziano, un personaggio indubbiamente interessante uscito dalla fertile mente creativa di Ben Pastor. In questo romanzo, la cui trama si svolge nel 306 d.C., allorché l’impero romano sta attraversando uno dei periodi più oscuri della sua lunga storia, con la lotta feroce per la successione nel passaggio dalla prima alla seconda Tetrarchia, l’imperatore Galerio affida a Elio Sparziano una delicatissima operazione diplomatica con destinatario l’ambizioso Massenzio. Il comandante, nell’attesa di essere ricevuto da lui, si ferma a Sorrentum, creduta l’antica dimora delle sirene e dove, accanto alla vicenda principale, se ne innesta un’altra, relativa s provare la colpevolezza o l’innocenza di un presunto parricida.
La carne al fuoco non manca, ma non c’è il rischio che bruci, perché troppa è l’abilità di Ben Pastor nell’evitare confusioni di personaggi, cadute di ritmo e inutili lungaggini, così che, nonostante le 512 pagine e il notevole numero dei protagonisti principali e secondari, si arriva piacevolmente alla fine, apprezzando ancora una volta la capacità della narratrice.
Peraltro, se la vicenda, particolarmente intricata, ha la sua importanza ed è in grado di appassionare anche il palato più esigente, quella che mi è piaciuta di più è l’ambientazione, resa con scrupolo e benissimo. Si ha l’impressione di camminare pari passo con Elio Sparziano, di essere al suo fianco quando si trova nelle taverne o quando entra nei bordelli; la sua ansia di sapere, le sue paure, le sue indecisioni diventano le nostre, per non parlare del suo sincero amore per la tenutaria egizia Thermuthis, donna bella e intelligente, che ogni lettore, pur facendo una sua personale raffigurazione, vede come un’ombra fuggevole, e pur tuttavia splendente, quando incontra Elio.
Con ogni probabilità c’è sempre a fronte un approfondito lavoro di ricerca grazie al quale è possibile calarci nell’impero dell’epoca, condizione del resto indispensabile per arrivare a quell’attrazione che è nei sogni di ogni autore.
Prima di arrivare all’ultima pagina avevo il timore che in questa lotta feroce per il potere, che non guarda in faccia padri, figli, mogli, fratelli, sorelle, il nostro Elio Sparziano ci lasciasse, ma per fortuna non è stato così, il che fa ben sperare che Ben Pastor abbia in serbo altre avventure da raccontarci.
La lettura, per quanto esposto, è senz’altro raccomandabile, anche perché l’opera, oltre a consentire di trascorrere ore piacevoli, è in grado di contribuire a una crescita culturale, narrando di un’epoca lontana; pur in presenza di una notevole creatività, Ben Pastor è capace di restare sostanzialmente aderente agli eventi, così che nelle sue linee essenziali la storia è rispettata.

Il filosofo in camicia nera - Mimmo Franzinelli

Al fascismo, per avere una consacrazione che andasse al di là del semplice spirito di un movimento, mancava una personalità, di chiara fama, che lo teorizzasse, una patente di nobiltà a cui un Mussolini, già al potere, non poteva che bramare. Del resto in Giovanni Gentile il duce trovò l’elemento adatto: di destra, ma liberale, e quindi non ancora fascista – ma lo diventerà in breve tempo – l’uomo, insegnante di filosofia, titolare di prestigiose cattedre universitarie, è il fondatore di una sua teoria filosofica, da lui denominata attualismo, che si può sintetizzare nel concetto che solo quello che si realizza attraverso il pensiero costituisce la realtà in cui il filosofo si riconosce. Non vado oltre, riguardo a questa teoria, per i miei limiti nella materia e anche perché non è lo scopo del bel saggio storico di Mimmo Franzinelli. Evidentemente parlare di questa filosofia ricollegandola al fascismo non rientrava negli scopi di Mussolini, a differenza di ciò che in effetti coniò Gentile come finalità del fascismo stesso, e cioè quello di creare un uomo nuovo, spirituale, per niente materialista e destinato a grandi imprese. E’ un bel fumo negli occhi che opportunamente inculcato nelle masse avrebbe fatto sì che le stesse intendessero come uomo nuovo Mussolini, esempio a cui tendere per dare un senso elevato alla propria vita. Come è ben noto, Giovanni Gentile venne assassinato dai Gap di Firenze il 15 aprile 1944, omicidio che fece, e fa ancora, molto discutere perché si ritiene non sia giusto punire un ideologo.
Al filosofo italiano si può imputare la notevole vanità, la ricerca di onori, di cariche di rilievo, di cui fu sempre gratificato da Mussolini, e lui lo ricambiò con una fedeltà a tutta prova, lui l’autore della grande riforma scolastica che si estrinseca nell’innalzamento dell’obbligo scolastico fino ai 14 anni, con un percorso che, dopo i cinque anni delle elementari, impone all’alunno di scegliere fra istituti di avviamento al lavoro, liceo scientifico, ginnasio, con quest’ultimo destinato a forgiare i nuovi amministratori dello stato. Come è possibile notare, tranne che per le elementari, uguali per tutti, è una scelta classista, benché la meritocrazia in sé non rappresenti un elemento confinante, a patto che tutti, economicamente, siano in grado di fare la scelta che ritengono più idonea.
Appare logico chiedersi perché Gentile sia stato ucciso. Non si ammazza in genere un filosofo, a meno che il suo comportamento e le sue idee abbiano avuto, e continuino ad avere, conseguenze nefaste. Tante sono le ipotesi e una delle più accreditate era la netta opposizione di Palmiro Togliatti al patto di pacificazione a cui Gentile stava lavorando. Nella primavera del 1944 il clima è da tempo quello della guerra civile, di cui indubbiamente si accorge Gentile, che continua a sostenere Mussolini, sottovalutando l’impatto dei suoi scritti dei suoi discorsi pubblici, come quello tenuto il 22 marzo all’inaugurazione dell’Accademia d’Italia, davanti a una platea ridottissima, in cui, oltre a inneggiare a Mussolini, profonde parole di stima del tutto esagerate nei confronti di Adolf Hitler, forse sperando così di riuscire a ottenere la liberazione del figlio, detenuto in un lager tedesco. Dopo tre giorni a Firenze si fucilano cinque giovani renitenti alla leva, un vero e proprio eccidio che amplifica il discorso del 22 marzo, e in questo clima si decide di rispondere al terrore con il terrore, cercando un capro espiatorio di notevole fama, e Gentile è il soggetto ideale, sia per la sua presenza costante nel fascismo, prima e dopo l’8 settembre 1943, sia perché non è difficile da raggiungere, in quanto, nonostante le incognite pericolose di un conflitto fra italiani, vive un po’ trasognato, immerso nei suoi pensieri e poco presente alla realtà.
Ecco, credo che in breve, dati i limiti di spazio, non si possa dire molto di più, e del resto per gli approfondimenti basta leggere questo riuscito saggio storico di Mimmo Franzinelli.